“I don’t speak english.. eu cantu calabrisi!”: l’orgogliosa rivendicazione affiancata alla foto di Domenico Sisto ci dice subito che siamo davanti a uno dei numerosi progetti il cui intento è fare da ponte fra la musica contemporanea e una certa cultura territoriale. Si tratta, più che altro, di un recupero linguistico e tematico, non musicale, perché qui di pizzica, taranta etc. non c’è nulla: troviamo muri di chitarre e tastiere, all’insegna di un rock pesante e ultra-melodico.
Le influenze sono svariate: si va da fraseggi alla U2 a pezzi stile Negramaro - con vaghe somiglianze tra la voce di Sisto e quella di Sangiorgi - passando per classiche ballad hard rock e brani più pestoni. Nonostante non manchino riff e arrangiamenti interessanti, il tutto non restituisce un’impressione di grande originalità. Sarà il suono, patinato e non così nuovo, o un certo abuso di melodie poco fantasiose da pop rock malinconico in stile radio FM; i pezzi che si fanno apprezzare non mancano ma, in generale, il songwriting può essere migliorato: si sente un'ottima padronanza ed esperienza dei musicisti ma anche una leggera puzza di manierismo e di già sentito. Discorso analogo anche per i testi: la quasi completa dicotomia tra parole d’amore e orgoglio territoriale alla lunga può stancare e - sarà la lunghezza dell’album: 11 pezzi per un totale di un’ora - capita più di una volta che un brano ben scritto sia seguito, subito la traccia dopo, da romanticherie banali o dall'ennesima immagine, già vista e rivista, della terra calabrese.
Quello che rimane di buono in questo lavoro, la linea portante che salva il progetto, è l'idea di fondo: il dialetto calabrese ha una musicalità particolare e interessante, oltretutto non è nemmno così ostico da comprendere; adattarlo al rock senza sentirsi in dovere di infilare qualche tammorra o un riddim reggae è un buon punto da cui partire. Ora c'è da costruire tutto il resto.
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