Si fa un gran parlare in questi giorni di una fiction ambientata negli anni delle bombe, delle camicie coi collettoni e delle tappezzerie marroni e arancioni, fiction italiana nel senso peggiore del termine, scritta male e fatta peggio. L'avessero scritta – e musicata - i Fitness Forever, sarebbe sicuramente venuta meglio, visto l'amore più che manifesto per quegli anni, e il rigore filologico e la credibilità con cui il gruppo partenopeo ricrea certe atmosfere, proiettandoti con la vividezza di un trip da lsd in un film con Monica Vitti e Vittorio Gassman, nella cucina di formica dove i tuoi genitori coi loro baffi poco hipster e le scarpe con le zeppe amoreggiavano ascoltando gli Alunni del sole, in un cinema a vedere Lino Banfi avvolto dal fumo delle sigarette che erano ancora permesse, o su una decappottabile insieme a un detective con la camicia a fiori. Ti fanno vedere le colonne sonore di Piero Umiliani (citato nella prima traccia “Piano Fender Blues”), il cinema d'autore e i b-movie e i poliziotteschi, i cantautori di Genova (quanto è “genovese” l'ultima “Il mare”?), Celentano (“Cosmos” è praticamente una finta cover del Molleggiato), il juke box al bar della spiaggia (quest'estate voglio mettere duecento lire nel juke-box e ascoltare “Lui” e fare il coro “Davvero? Davvero? Sì, davvero!” - terribilmente, irresistibilmente, adorabilmente kitsch, esigo che diventi un tormentone), il beat che sfuma nel prog (“Hotel Flamingo”), la discoteca il pomeriggio con la disco-music e il funky, Bacharach e Bruno Martino e la leggerezza e la tristezza, con gli strumenti rubati dalla cantina dello zio che fanno suonare queste canzoni come se venissero proprio da qualche luogo di quarant'anni fa. E perché, potresti chiederti, fare un disco che suona come quarant'anni fa? Per lo stesso motivo, dico io, per cui si scrive un libro, o si gira un film, o una fiction, ambientati quarant'anni fa: per dire qualcosa. L'importante è dirlo bene, e i Fitness Forever lo dicono benissimo.
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