Il sogno diventa incubo e le paure diventano angosce. Un lavoro difficile da decifrare, colmo di poetica e tristezza.
Stanotte ho fatto un sogno. In quei pochi intervalli di respiro fra l’insonnia e l’asma sono riuscita a sognare. Ho sognato di te e di me, dei tempi andati e di quelli che sarebbero potuti venire. In quel luogo spazio temporale plasmato dal cervello c’era ancora posto per noi due, a differenza della realtà, che sembra troppo spesso una secchiata d'acqua gelida in faccia. Questo disco è più o meno così, come uno di quei sogni dove oscilli continuamente fra l’angoscia, la paura, le ansie che ti bloccano i muscoli e le lacrime salate che hai versato troppe volte.
Il lotto si apre con una piacevole cover di David Bowie, “Space Oddity”, che non ha niente a che vedere con il mood sopracitato, qualche minuto di respiro e pace prima di immergersi nelle tenebre. I primi accordi di “Hymn to Life, Ode to Death” sono rilassati, distesi, fino a che si cambia direzione e gli archi che impreziosiscono l’arrangiamento sono l’ultimo raggio di sereno, i suoni si fanno oscuri e cupi e l’atmosfera diventa tesa. La disillusione arriva con “Paradise Lost”, il violino, che rende la struttura più ricercata, piange, il pianoforte ti stringe il cuore con la sua dolcezza e il brano ricco di metafore sembra un film in bianco e nero ansioso, circolare, senza fine. Con “The Choice” il ritmo si fa più concitato, le chitarre diventano ruvide e la rabbia è ancora più tangibile; è come se il brano volesse esplodere da un momento all’altro, come se la catastrofe fosse vicina quando invece rimani spiazzato dagli ultimi secondi che confluiscono nella più rilassata “As High as the Kite Can Fly”. I suoni ruvidi vengono qui smussati in accordi più morbidi, mentre le parole rimangono rabbiose, le paure si trasformano in angosce e il parlato si fa cantato più garbato, per poi tornare di nuovo al punto di partenza. “Memory’s Drope”, dove spesso sembra che le liriche vadano per conto proprio, faticando a seguire la struttura del brano, e “Long Lasting Friend”, tripudio di immagini e chitarre che ti rimbalzano in testa come un’emicrania, chiudono questo sogno che ha le sembianze di un incubo dal quale ti svegli sudato, agitato e ancora più triste di prima.
La pecca del disco è che risulta un viaggio faticoso da intraprendere, non tanto per le sonorità, piuttosto per l’atmosfera pesante dei sei brani che spesso si somigliano troppo, senza soluzioni che risultino davvero originali, rendendo il tutto poco fluido. E’ un lavoro difficile da decifrare appieno, ma la tecnica non manca e la sostanza neppure: quello che possiamo fare è lasciarci trascinare dalla poetica di Maelstrom e lasciare che le emozioni ci entrino dentro.
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La recensione 3725 di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2014-03-12 00:00:00
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