Arriva fino alla bella Ragusa la scia lunga della cupa nebbia d’Albione. Ma il sole da queste parti, quando vuole, sa essere una palla di rame e, alla fine, tutto si dissolve rapidamente ancor prima che tu riesca ad indossare un lungo cappottone grigio; anche perché, diciamocela tutta, questa nebbia non ha più la consistenza di una volta. The Crackers (peraltro in sintonia con altre band italiane quali Coldwave, Confield o Dust Fear Of Lover) si accodano timidamente alla lunga lista di blasonate band post-punk revivaliste che, dopo un fisiologico bagliore iniziale, si sono poi creativamente accartocciate su se stesse (Interpol, Editors e White Lies, giusto per citare i più famosi). A loro modo scorie infinitesimali dei Joy Division (e sodali dell’epoca) anche i Crackers ricalcano il copione di rito voce ieratica / basso ossessivo / chitarre taglienti per confezionare le loro canzoni che, ahimè, mancano però delle giuste tensioni umorali e crescendo volumetrici per ambire al titolo di credibili manifesti sonori d’inquietudine metropolitana. Insomma, troppo remissivi e anemici (soprattutto a livello vocale) per riprodurre efficacemente quel provvidenziale gioco d’ombre dalle tinte cobalto che ha reso riconoscibile questo genere e che la sola “Uncomfortable silences” sembra garantire nella sua ibridazione strumentale new wave / post-rock. Tutto suona maldestramente derivativo, vi basti l’ascolto di “Separate ways” che ruba letteralmente le movenze alla bella “A letter to Elise” dei Cure. In campana, dunque, perché dal revival al tributo il passo è breve.
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