Palm Desert, California, con un’auto decapottabile percorriamo una delle grandi strade dello stato senza sapere dove andremo. Intorno a noi sabbia, caldo e un sole rosso all’orizzonte. E’ questo lo scenario in cui ti senti immerso con l’ascolto di “Cloud Eye”, album d’esordio della band siciliana Elevators to the Greatful Sky. I Kyuss (in particolare con il loro terzo album “Blues for the Red Sun”) possono rappresentare il manifesto e l’ispirazione di questo lavoro: quel deserto tanto caro a Garcia, Homme e soci sembrerebbe lo stesso della Sicilia. In più si percepisce forti reminiscenze sabbathiane ed elementi rock psichedelici degli anni '70 che rendono il lavoro particolare.
L’opener “Ridernaut” ha una struttura lineare, quasi robot rock per la ripetizione di riff (Queen of the stone age docet). Si prosegue con “Sonic Bloom”, dal suono più oscuro che termina in un vorticoso assolo di chitarra su cui ogni amante di rock psichedelico non può che sciogliersi. “Red Mud” mantiene il ritmo vivo deviando dal tipico sentiero dello stoner incanalandosi verso una strada fatta di puro rumore multicolore (e spuntano i King Krimson). “Turn in my head” che vira verso un suono sì anni '90 ma con un pizzico di Rage Against the Machine. “Mirador”, unico pezzo strumentale del disco, rallenta un po' ma già con “Handful of Sand”, “Upside up” e “Sirocco”, il ritmo ritorna aggressivo. Infilano una stacco reggae in “Cloud Eye” che proprio non ti aspetti, poi arriva "Stone Wall” e riporta il disco in carreggiata: è la più doom dell’album, che decolla in un finale a sorpresa.
Gli Elevators To Grateful Sky non suonano nulla di sconvolgente o innovativo, ma tutto è al suo posto. Conoscono bene il genere e sanno contaminarlo con altri tipi di sfumature. L'unico neo potrebbe essere la voce, non così particolarmente significativa. Nel complesso è un buon lavoro, merita più di un ascolto.
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