Cannonate stoner nella maniera più epica possibile
Il disco dei Kaleidoscopic, opera prima, ha diverse funzionalità, ti può esaltare per la potenza da uragano che emana ad alti volumi, ti può far venire voglia di appiccare un incendio (il fuoco è decisamente l'elemento guida), senza cattiveria, ma giusto per sfogarsi, oppure, ti può semplicemente creare quella patina interna all'organismo che riveste gli organi e li opprime.
La musica di quest'album è hard-rock, è densità, è un muro sonoro di chitarre sovrastanti a tutto, poche pause di respiro; la band aretina ha riversato tutta la furia di cui era capace nelle registrazioni dei pezzi senza tergiversare con abbellimenti e barocchismi, strumenti al massimo e cascate di rabbia. Uno: "La Cassa". "quando la casta saluta e passa/tutti lì come prima manco ci vedevano/tutti allibiti che nessuno si immoli/che neanche un cane è rimasto da solo là fuori", giro di basso demoniaco e inizio in puro stile Melvins. Due - Tre: "stanotte ho il caraggio di un soldato/in guerra col dolore anche se sarò ammazzato" perchè bisogna dare tutto, fino al midollo per guadagnarsi una vittoria misera, insufficiente per resistere. "Stanotte voglio dolcezza dalla mia migliore amica/le sue Pillole di Saggezza/la mia ricetta preferita/dal volo planato nessuno è mai tronato", servirebbe uno schianto, che risvegli una volta per tutte dal torpore del niente. Quattro - Cinque - Sei: i cannoni sparano stoner rock contro il mondo intero, non c'è tregua per nessuno "vorrei urlare alla gente in faccia per come mi delude/il modo in cui mi lascia/per tornare ad avere fede nella vita di note ed urla l'abbiamo concepita", non siamo mai stati veramente liberi, a volte sprazzi di godimento ci ipnotizzano ma poi ci si sveglia inevitabilmente ed è come cadere di faccia bendati.
E' una crudezza simile a quella del Teatro degli Orrori quella che perdura nel disco, il vomito verbale è continuo, le ritmiche si spezzano in singhiozzi e si ricongiungono in dinamitarde. "Penso al valore esentasse/delle mie interiora sul mercato/il prezzo netto/della libertà" chissà se valiamo più noi o più la nostra libertà, quì davvero se ci si pensa l'inquietudine tocca il livello massimo. Sette - Otto: non sappiamo quanto di vero ci circonda e quanto viviamo in una cupola, magari un bacio può essere la chiave, un momento in cui il tempo si congela e le domande esistenziali si fanno fottere dall'istante "e se se stanotte ci baciamo per un tempo infinito/stai certa il tempo non sarà poi così puntiglioso", dopotutto il passato non esiste, il futuro non esiste, si vive nel presente poche storie.
Nove: il finale è epico. Niente strofe, niente ritornelli, niente assoli per carità, solo e unicamente potenza, distorsione e cambi di tonalità, giù dritti a testa bassa. Le urla strazianti si sentono appena, ed è una conclusione disarmante:"che siamo stanchi/che siamo vivi/uscendo da tutte le utopie/ed in alcuni casi ipocondrie/l'amore effimero mai duraturo/potrà sembrarti fugace/stolto e leggero/ma prova a pensare/che sarà solo sincero", una lettera a chi ascolta, una constatazione dei fatti, con i pochi organi capaci di ricevere ci affidiamo ai sentimenti, che siano loro a indicare il da farsi, o semplicemente sappiano generare piccole luci nei periodi poco chiari.
Un album che stordisce, incupisce me alla fine spera. Spera solo di essere ascoltato come si deve. Perchè in fondo non fa così paura.
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La recensione Onironauta di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2014-07-17 00:00:00
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