Il nome della band ci riporta sistematicamente con la memoria all’album forse più ostico di Björk ma musicalmente siamo da tutt’altra parte visto che i milanesi Medulla palesano una marcata propensione verso l’introspezione visionaria e il denso inchiostro corvino che caratterizzarono la new wave italiana di metà anni ‘80. Basta del resto una fugacissima occhiata ai titoli dei brani in scaletta per focalizzare fin da subito i confini territoriali dentro i quali si muove “Camera Oscura”, perimetralmente racchiusi all’interno di quel collaudato immaginario lirico fatto di polvere, cenere, silenzio, notte, sangue, tenebre, amore, maschere...fino all’immancabile nulla di diaframmana memoria.
Tanto è figlio legittimo di quel periodo che, stilisticamente parlando, il secondo disco dei Medulla - se chirurgicamente sviscerato - sembra nutrirsi, a distanza di diciotto anni, delle briciole costitutive di “17 RE”, per quella sua dorsale concettuale che affratella tutte le tracce del lotto e per quelle sue architetture sonore che intrecciano epica oscurità, rock visionario e pathos teatrale. Le affinità, però, non si spingono oltre dal momento che “Camera oscura” - a differenza del succitato capolavoro litfibiano - difetta di potenza evocativa e didascalica panoramicità d’insieme, trasformando in piacevole anacronismo musicale (anche a livello di suoni) quella che nel 1986 era sapiente ricerca orchestrale. A compensare la marcata derivatività (Litfiba, Bohémien) di brani come “Bestia” o “Il dubbio” ci pensano occasionali slanci dark-cabarettistici (“La filastrocca”, “La tenebra”), qualche umore nu-metal-goticheggiante sparso qua e là (“Il limite”, “Il nulla”) e una rispettabile trasversalità cantautoriale, intrisa di cupezza baustelliana, che raggiunge ne “Il complice” e “Il coniglio” le sue vette espressive.
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