La tensione non scema mai, ascoltando i Chester Polio: si ha la netta sensazione che qualcosa stia per accadere, qualcosa di improvviso, imprevisto, violento nella sua accezione più pura, come essere presi da una forza che fa di cupezza, profondità e movimento il suo credo basilare. Due chitarre e batteria, nessuna voce (a parte il divertissement di “Cavallo Sam” che recita in loop “Non c’è questa traccia, non fare quella faccia”), per attraversare generi con disinvoltura e dare un significato differente ai prefissi prog e post: perché si va oltre il rock e il metal e al tempo stesso si scivola tra approcci che mutano velocemente, come infiniti cambi d’abito e variazioni di scena, e su tutto un suono che brucia e scava, fitto e stratificato quanto un’atavica rabbia, e che va dritto in fondo allo stomaco per restarci, dall’inizio alla fine, la tensione non si spegne.
Eppure l’incipit tradisce desideri dolcissimi che durano lo spazio di un addio, quelle chitarre morbide e dreamy di “Mineralia” che per un minuto ti illudono per essere sopraffatte poi da un’esplosione, e poi ancora una corsa eterea coi battiti in prima linea, post rock immaginifico, ricco, avvolgente, saturo di fulminei innamoramenti che presto cadono, e cadere in “Giuno” e nei suoi vortici ossessivi che prendono il metallo, lo plasmano attraverso corde tristi per confluire in un finale degno della migliore tradizione thrash. “Amico dello Gnu” è un intervallo, un presagio, l’attesa che porta a “Gnu dell’Amico”, un brano che contiene davvero tutto, l’energia, il crescendo emozionale, i nineties e il math e le accelerazioni e i capogiri che ti fanno a pezzi il cuore, e quando pensi che tutto si risolva in quel dolore emotivo che hai, “Nero” ti afferra alle spalle, ti illude e poi ti finisce, bellissima. Più gentili degli Shellac e più sporchi dei Mogwai e degli Explosions in the Sky, i Chester Polio mantengono l’equilibrio su un mood costantemente velato di passione, a volte torbida, altre in fiamme, altre ancora viva e quasi vittoriosa, quasi ma mai, e “Doom Backy” lo conferma in un finale dolcemente disperante che assume i tratti di una ballata, di una sconfitta, e un finale nel finale che è totally metal e tutto si confonde, s’agita, per poi abbandonarsi alle ultime note di chitarra, trenta secondi minimali di solitudine.
“Locus” è un lavoro che non permette mai di adagiarsi, di cedere un poco, perché spiazza e smuove e conquista, è un disco che nel suono compatto e nella tempesta di generi mantiene un’eleganza formale e un gusto attento, è bello e violento e non lascia indifferenti, questo è sicuro: uno di quei dischi che fanno male ma di cui non puoi fare a meno.
Vedi la tracklist e ascolta le tracce sul player nella versione completa.