Fu esattamente nel 2008 che dedicai qualche riga d’encomio ai Bad Apple Sons, in occasione della loro meritatissima vittoria al “Rock Contest” di quello stesso anno. Li ritrovo nuovamente oggi, a distanza di 6 anni, a legittimare quell’investitura con un’opera seconda autorevole e matura (dopo l’omonimo debutto del 2010). Meno ragazzi e più uomini, i quattro rockers fiorentini - dopo aver assorbito molecolarmente una moltitudine di ascolti nei propri impasti creativi - palesano con “My dear no fear” una personalità stilistica che se tanto prende dai grandi e riconoscibili padri putativi altrettanto restituisce con rinnovata freschezza.
Il cupo romanticismo nickcaveano che traspare dal titolo ci anticipa solo in parte la turbolenta carica esistenziale che scuote e scarnifica le nove tracce dell’album: l’accorta produzione artistica di Paolo Mauri (uno che la sa lunga!) riesce a capitalizzare al meglio il patrimonio noise-rock portato in dote dalla band toscana trasformandolo in un amplificatore sonoro di angoscia psichedelica e schizofrenia post-punk, in quella che a tutti gli effetti incarna un’efficace rappresentazione sonica delle umanissime paure come da tempo non si ascoltava in Italia: la follia metallica di “Free Neural Enterprise” avrebbe potuto interpretarla il buon Blixa Bargeld di venti anni fa, “My dear and fear” e “Cowards” vomitano da ogni accordo epici amperaggi, lo sferragliare maledetto à-la-Cop Shoot Cop di “Tempest party” fa pendant con quello lugubre di “Black monkey”, e se nei 9 minuti di “Ascend” ritroviamo tra le lamiere contorte uno psycho-blues agonizzante, violentato e irriconoscibile, nella conclusiva “Stop shakin’ rope” intravediamo le distorte visioni doorsiane nell’atto di flirtare con la disperazione degli Swans.
Come quattro registi consumati dall’istinto i Bad Apple Sons orchestrano sullo stesso sfondo deflagrazioni elettriche e livida staticità, rabbia primordiale e urticante teatralità, affratellando dentro lo stesso delirio il più folle passato e il presente più oscuro.
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