Dall'hinterland emiliano alla città vecchia della capitale ceca, per un fascino oltrecortina, oltretempo, oltrespazio. Gli Staré Město scelgono di chiamarsi come la porzione di città praghese ad est del fiume Moldava, quella che anticamente raccoglieva il maggior numero di etnie e mescolava culture ed usanze differenti: allo stesso modo le esperienze dei quattro membri del gruppo, disposti nella formazione rock più classica (due chitarre, basso e batteria) si raccolgono sotto una coltre di testi evocativi e suoni all'occorrenza ruvidi, graffianti oppure improvvisamente nubilosi.
Partendo da “Thalia”, traccia d'apertura, per me è già affinità elettiva; la strumentazione esplode insieme alle parole taglienti e rugginose, urlate e poi retratte con quel cantato-non-cantato tipico dei Massimo Volume, addolcite nella resa sfinita del ritornello melodico, recitante: “saremo sempre così, io e te...”. Il “Racconto Di Primavera” che segue non riesce a convincermi del suo ottimismo e, sebbene suoni più pop di qualsiasi altro pezzo presente sul disco, la sensazione che si percepisce è sempre quella di essere/avere una bandiera bianca sventolante a mezz'asta, il cielo azzurro piatto senza sfumature e tutt'intorno papaveri tristi. Poi abbiamo “Meno di Zero”, epitome di un ciclo di stagioni in cui tutto si crea, tutto si distrugge. Risorge “Riparo”, con energia, forse troppa, risultando spiazzante come un incendio in pieno inverno.
Decadentismo e post rock. Ermetismo e alt rock. Romanticismo e new wave. In tutta onestà e senza strafare gli Staré Město riescono egregiamente anche a riproporre un pezzo poco noto dei Diaframma (“Cielo d'Africa”) ed è quasi una prova del nove, soprattutto perché le tre tracce a seguire non perdono di carattere e sostrato. Parlo degli arpeggi puliti e i riverberi di voce di “Le mani” e della “Canzone della torre più alta”, del suo testo ispirato dall'omonimo componimento di Rimbaud, a cui tra l'altro è dedicata. Parlo soprattutto di “Ultima Cena”, traccia di chiusura ed emblema sonoro di tutto il disco. Il parlato ritorna adesso che c'è il bisogno impellente di essere incisivi ed è importante che non si perda neanche una parola: un cerchio che si chiude nell'ineluttabilità degli eventi che tendono a risolversi stanchi e tumefatti, che rendono irriconoscibile il volto amato. La miseria di ogni ultimo tentativo. La claustrofobia dei gesti soliti. Tutti gli strumenti partecipano alla pena: il giro di basso iniziale, la batteria e le chitarre che si accendono e si spengono, pianissimo-fortissimo, trascinando note e accordi come si trascina un sentimento ormai ridotto a brandelli.
Lo storico panorama italiano rock anni 80-90 influenza molto gli Staré Město ma non riesce ad intrappolarli in epoche già vissute, loro stessi le rammentano con bravura e soprattutto personalità. Le ragioni dell'animo e le ragioni di stile non competono nell'affermazione dell'una o dell'altra e in finale non c'è subordinazione: scrittura musicale e testuale sono due parti del tutto, un naturale connubio arricchito di suggestioni che fa di questo semplice disco d'esordio un gran bel disco d'esordio.
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