Se lo rubricassimo come il parto musicale di una “Comune” di sessantontina memoria non saremmo poi così blasfemi. “L’inverno della civetta” è figlio di un’illuminata promiscuità artistica come in Italia non si vedeva da tempo: un progetto collettivo che sotto l’egida del Greenfog Recording Studio di Genova, in combutta con le due indie-etichette liguri Taxi Driver e DreaminGorilla, affratella e mescola numerosi musicisti del retroterra savonese/genovese – membri dei Meganoidi, Numero 6, Gli Altri, Madame Blague, solo per citarne alcuni – dentro un girotondo sonico dalle predominanti propaggini stoner-psichedeliche.
Siamo al cospetto di un’autarchica comunione d’intenti, massivamente elettrificata, che difende orgogliosamente le peculiarità territoriali di una delle dislocazioni underground più prolifiche d’Italia. Insomma, un divertissement stilisticamente tentacolare – all’insegna del “tutti uguali tutti diversi” – che avvelena lo spirito da cazzeggio creativo di un qualunque venerdì sera in sala prove con la seriosità di un torbido concept-album sull’oscuro disagio dei nostri tempi.
Nessuno tradisce, nessuno si tradisce: una volta salvaguardate, dunque, le personali prerogative di genere di ogni partecipante parte la sfida nell’approntare più pioneristiche vie di fuga. Sfida vinta! Ogni traccia palesa un proprio valore aggiunto che, sommandosi a quello delle altre, va a delineare una sorta di tormentato elettrocardiogramma del mondo, che seduce nelle sue meno problematiche contrazioni (il nostalgico beat ‘60s di “Messaterra”, il grunge mistico di “Chewbacca On Surf” o l’indie-folk straordinariamente sgangherato di “Numero 7”) e stordisce, invece, nelle sue più alterate depressioni (l’apertura devastante di “Territori del Nord Ovest”, lo squarcio hardcore di “Amaro”, il prog arcano di “Morgengruss” e l’ammaliante post-rock espressionista di “Estonia”, con tanto di citazioni da “Stalker” di Andrej Tarkovskij).
Un progetto pioneristico saturo di sfigurata bellezza, realizzato, sì, per divertirsi ma, soprattutto, per ribadire che, alla fine, “l’umanità esiste per creare” (a buon intenditor poche parole).
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