Phill Reynolds ci apre le porte della sua intimità con il nuovo disco, raccolta di brani vecchi e nuovi e di cover a cui è particolarmente affezionato, regalandoci un ritratto a tutto tondo di quelle che sono le sue fonti di ispirazione e il percorso fatto finora. Sì, percorso, perché qui c'è Silva non ancora Phill con “Mortimery”, scritta quando aveva solo 13 anni, o “Promise!” canto corale a bicchieri levati dedicato a una persona che non c'è più, e ancora “Last lullaby”, suonata con l'ausilio del padre Toni. E' chiaro anche dall'artwork del disco, con i credits scritti a mano, quanto questo lavoro sia un'autobiografia del Phill negli anni, corpo e voce intrappolati in Italia, espressività ben radicata oltre oceano.
L'omaggio al father Bruce Springsteen in “Streets of Philadelphia” (che straordinariamente funziona anche senza il “na na na na” del coro), e al più attuale The Tallest Man on Heart “Kids on the run”, la versione acustica di “Skyscraper” dei Bad Religion: elementi che concorrono a cementificare l'immagine che già abbiamo del Phill Reynolds cantautore folk, tramite scelte non convenzionali di repertorio. Non quindi le grandi voci del folk, Woody Guthrie, Bob Dylan, ma il rock, addirittura l'hardcore punk.
Nei suoi brani originali poi si percepisce una scrittura matura e ascrivibile a un genere ben preciso: l'Eddie Vedder di “Into the wild” in “The winged wood”, “El Centro, CA” e “Fallen”, le dolcezze infinite di “Ask the mirror”, supportate da una voce profonda e la chitarra protagonista.
Registrato quasi completamente col solo ausilio di un telefonino, Phill Reynolds ci porta in casa sua, nella chiesa del paese, improvvisati studi di registrazione. Il disco ne risente un po' come qualità della registrazione, non sempre all'altezza, ma ne guadagna in spontaneità, come se lui fosse lì sul suo sgabello, con la sua chitarra. Chi c'era a sentirlo il sabato pomeriggio del Mi Ami 2013, col sole alto e la vista lago, sa di cosa parlo.
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