Dropeners
In The Middle 2014 - Alternativo, Electro, Pop rock

In The Middle

L’arte di mimetizzare chiaroscurali déjà-vu ‘80/’90 dentro uno scintillio blu cobalto di stadium rock, elettronica e ammiccante wave psichedelica.

Ci sono déjà-vu e déjà-vu: quelli detonati dai Dropeners, ad esempio, sono di eccellente qualità, nulla da dire. Il loro “In the middle” è una (auto)produzione coi fiocchi, ben arrangiata, quasi perfetta nel dosaggio atmosferico dei suoni ed emotivamente carica di ammiccanti chiaroscuri anglosassoni. Quello che dunque manca, alla fine, è un seppur minimo slancio di pionerismo, di provvidenziale coraggio nello stravolgere datati (ma pur sempre seducenti) canovacci musicali alla luce di una nuova sensibilità orchestrale. Già, perché qui siamo al cospetto di dieci tracce che - lungi dall’essere pedisseque riproposizioni di belle cose perdute - si aggrappano con le unghie alle propaggini più enfatiche di certo alt-rock di derivazione new wave che ha fatto la fortuna del cuscinetto sonoro tra ’80 e ’90. Per tutti coloro, dunque, che se ne sbattono dell’originalità e per i quali anche il sol fatto di “nascondere con scaltrezza il maltolto” è già di per sé sinonimo di talento questo disco rappresenterà una vera e propria manna dal cielo per tutti gli altri, invece, semplicemente l’occasione di ”tuffarsi perplessi in momenti vissuti di già”, come direbbe il buon Enrico Ruggeri.

I Dropeners pensano bene di utilizzare come lievito madre l’evocativo blu cobalto di quello stadium rock notturno che trova negli U2 achtungbabyani i loro più blasonati esponenti, per poi allargarsi verso prospettive scenografiche più rarefatte, sì, ma pur sempre “lontane cugine” dell’anima più psichedelica dei quattro mocciosi irlandesi. Alle 6 corde che scintillano gelidamente nell’aria, rubando letteralmente le pedaliere a The Edge (“Without colour”, “You Don’t know” e “Normalize”), il quartetto ferrarese aggiunge patinati umori elettronici di scuola depechemodiana (“Western dream”, “Mr. President”), qualche raffinatezza su fiati sparsa qua e là (“Ruines behind”, “Rules of pressure”) e un’intimistica grandeur sonica che ritrova le sue radici nei Coldplay più ariosi (“Lead your light”) e nei più istintivi Radiohead (“The hill”). La bella voce di Vasilis Tsavdaridis, in grado di coprire un po’ tutta la gamma dei registri malinconici di riferimento, fa il resto, conferendo a questo lavoro una piaciona aura immaginifica per nulla italiana.

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