Vengono da Roma con un ep di sei tracce autoprodotte per ventiquattro minuti ed il fermo obiettivo di trovare in queste canzoni un proprio spazio tra cantautorato acustico e spunti di folk. Il tributo pagato al cantautorato di matrice degregoriana è sostanzioso e palese, sia nelle musiche che nella poetica. Le contaminazioni folk restano più che altro relegate alle svisate strumentali di contorno, con uno stile di arrangiamento tipico italiano anni sessanta. Si susseguono echi di Santo e Johnny, di Modena City Ramblers e pure di Bob Dylan e folk americano, come se nel primo De Gregori (e Luigi Grechi per sintesi, suvvia) non ve ne fosse abbastanza. Se magari a tratti sul punto dell’originalità il breve disco latita, bisogna riconoscere come le canzoni girino e nella loro semplicità riescano a chiudersi senza particolari intoppi, denotando anzi una certa cura nel riprodurre calligraficamente abbellimenti di genere negli arrangiamenti. Anche nei testi, seppur con eccessi retorici nell’uso di liste (in cui comunque qualche colpo buono c’è), è la semplicità a colpire e funzionare. Un risultato è stato portato a casa, ora servon palchi, sudore e tanti nuovi ascolti.
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