"Un Fedele Ritratto" è il nuovo lavoro del cantautore trevigiano Giorgio Barbarotta, disco autoprodotto che fa una certa mostra di maestria e professionalità, soprattutto nell'arrangiamento. Un misto di rock, folk ed elettronica, misurato e calzante, con elementi e riferimenti veramente diversificati. Il cantato, sempre impeccabile, a sprazzi richiama De André e il cantautorato italiano, nelle atmosfere, nella cadenza dei versi e nella scelta delle parole, specie ne "La roba da buttare" (traccia numero tre). C'è spazio anche per le classiche inflessioni da rocker intonato, che biascica la fine delle parole per dare quel certo colore ai testi, cosa che, a mio avviso, rappresenta la parte più rivedibile dell'interpretazione dei brani. Quell'effetto alla Piero Pelù o alla Ligabue, che se non sai fare suona poco spontaneo (Distanzaaah). E i testi in alcuni casi peccano un po' di banalità. L'album, comunque, è ottimamente costruito, e questo, probabilmente, è il suo maggior difetto.
Vado nel dettaglio. La prima canzone è a tema "crisi". Argomento da prendere con le pinze, ma Barbarotta se la cava in calcio d'angolo, niente di troppo retorico e scontato, apparte l'orribile suono di bicchiere infranto proprio all'inizio. Sulla stessa falsariga di "Sbotta" c'è "Portami a Casa", che nonostante un intro strumentale coinvolgente, snocciola una serie di soluzioni che francamente fanno riconsiderare un po' il tutto; ad esempio quando Barbarotta canta di "gguard reil" e "autogriiul" con accento improbabile, e quando compaiono parole che suonano come inserite a caso. In "Ecclissi di Sole", tornano i riferimenti al cantautorato italiano, e sono veramente ben mixati e resi abbastanza irriconoscibili. Nello specifico, stavolta torna dall'aldilà Lucio Battisti con "I Giardini di Marzo", con le dovute modifiche di tonalità e tempo. "Gratia Dei" è forse uno dei pezzi migliori dell'album. Mi ha colpito la cristianità non troppo velata del testo, in cui l'uomo è descritto come una creatura limitata che non può che dimostrare la propria imperfezione di fronte a Dio; che ci guarda da lassù e annuisce, biblicamente. I toni da lenta ballad che si dipana in un crescendo mistico richiamano un po' la "Cura" di Battiato, nella verbosità del testo, nella cantilenosità religiosa.
In "Stelle e Strisce" ovviamente compaiono le armoniche, che condiscono una serie di luoghi comuni sull'America. Messi lì per fare rima, assieme a delle frasi in inglese non troppo comprensibili. Però è intonato, dimostra anche una bella estensione vocale. George W. Bush, Obama e i motel, sogno americano, il tabasco, grattacieli, limousine, pellerossa, Mississipi, blues, famiglie grasse, Hollywood, motociclette, tutto l'immaginario americano, zio Sam, rap, Beatles (?) e potrei continuare tranquillamente a trascriverne il testo. Conclude l'album con "Echi di Tokyo", una ballad onirica e sognante. Con qualche ahiahi di troppo, forse. Che in altra tonalità ho già sentito, ma chissà dove. Iron & Wine direi.
In conclusione, questo disco, pur facendo sfoggio di addobbi e lucine colorate, si perde in eccessive autocelebrazioni e ricerche spasmodiche del dettaglio, con riferimenti certe volte troppo palesi a determinate tradizioni musicali. Un album senza dubbio ben orchestrato, ma che lascia un po' l'amaro in bocca: la sensazione di qualcosa di quasi raggiunto, appena sfiorato.
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