Uno split cd (a meno che non si tratti di un doppio singolo) è quasi sempre una scelta rischiosa: un po' perché l'ascoltatore che apprezza la prima metà può detestare la seconda e viceversa, un po' perché può addirittura essere fuorviato dalla presenza di due artisti, per quanto di genere simile, e prendere entrambi sottogamba. Il pericolo maggiore, tanto più se non si hanno le idee perfettamente chiare su ciò che si vuole fare.
E' il caso ad esempio di questo split album cui due – per il momento chiamiamoli così – cantautori, Marco Mati e Stefano Morelli, contribuiscono con sei brani a testa. La prima metà è affidata a Mati, che non fa certo mistero dell'influenza che tale Ben Harper ha avuto sulla sua formazione: “Diamonds & gold”, ad esempio, rimanda piuttosto chiaramente a due canzoni del cantante-chitarrista californiano, “Diamonds on the inside” e “Gold to me”, e i titoli non sono l'unico punto in comune: come conferma “Don't look back”, che è praticamente una rimasticatura di “How many miles must we march”, dal primo album di Harper, con qualche nota gospel che sembra uscita per caso dal disco coi Blind Boys of Alabama.
In un episodio, “September comes”, la rielaborazione harperiana di Mati si stacca sufficientemente dal modello e produce un pezzo di tutto rispetto, con un suggestivo crescendo finale. Ma ci sono altri due brani: uno è un anonimo acustico cantato in italiano, l'altro addirittura uno skinhead reggae che non sarebbe neanche male, se non fosse che la (pur bella) voce di Mati non ha il carisma sufficiente per tenere botta in un genere così lontano dalle sue corde.
Non punta invece tutto sull'eclettismo Stefano Morelli, che salvo poche eccezioni si affida al classico tandem voce-chitarra: dopo essersi presentato autorevolmente con un bel blues-pop in italiano, “Cielo senza nuvole”, Morelli inizia a fare il gioco delle tre carte con le lingue, facendogli seguire un pezzo in napoletano, poi due in inglese, un altro in italiano e l'ultimo ancora in inglese.
E sebbene musicalmente ci siano diverse note positive, in primis la finezza degli arrangiamenti con gli archi e la delicatezza dell'interpretazione, il continuo cambio di idioma spiazza parecchio, e non in bene. Tanto più che la pronuncia non è esattamente scintillante e qualche ingenuità da lezioni d'inglese da terza media salta all'occhio (“a rainbow / full of colours”, per dirne una).
Ad ogni modo, nonostante le pecche di entrambi i lati dello split, sarebbe un peccato bocciare completamente il lavoro di questi due cantautori – alla fine dei conti è giusto chiamarli così, le carte in regola ce le hanno: una voce calda e sicura dei propri mezzi, qualche buona intuizione in fase compositiva al di là degli evidenti debiti stilistici, il coraggio di osare soprattutto in fase arrangiativa (più in maniera intimista per Morelli, mentre più pop-gospel è la vocazione di Mati), un bagaglio di cultura musicale che molte vie potrebbe aprire in futuro. Non è poco, in fondo: basta ripartire consapevoli di questi punti di forza. E, senza nulla togliere l'uno allo stile e alla personalità dell'altro, ciascuno dritto per la sua strada. In autonomia.
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