Sono lontani i tempi di "About Love and Indifference", si direbbe ad ascoltare il nuovo lavoro di Davide Combusti, in arte The Niro. Lontani, sì. Perché la scia cantautoriale alla Jeff Buckley con cui l'abbiamo conosciuto ha lasciato spazio a un lavoro più complesso e, stavolta, tutto in italiano. Il marchio di fabbrica, però, resta e si sente bene: certi passaggi inconfondibili, certi falsetti, sono sempre lì a segnare uno stile che chi lo conosce dal suo passato più underground riconosce all'istante.
Il nuovo The Niro, quello che ha conquistato il pubblico di Sanremo con il suo viso sincero, talento in tasca e l'umiltà di chi ha già fatto tanti concerti e sa da dove viene, passa da questo "1969". Un album di 11 canzoni che prende il titolo dalla canzone portata all'Ariston, dedicata allo sbarco sulla Luna: un episodio da celebrare perché testimonia il progresso umano, ma che nasconde anche un velo di malinconia, visto che è forse l'ultimo momento in cui l'umanità è stata tutta col naso all'insù ad ammirare i prodigi (o i trucchi, per i complottisti) della tecnologia. E' un brano meravigliosamente pop rock, che entra subito nel vivo con una forte carica e che per Sanremo ha significato anche una digressione notevole dalla forma canzone classica, tipica del melodico italiano. Sulla stessa lunghezza d'onda c'è pure il secondo singolo, "Ruggine": batteria potente, riff appiccicoso, un testo in cui si fa presto a riconoscersi.
C'è poi un pizzico di indie rock nel primo brano, "L'evoluzione della specie". Un'ottima intro al disco, denuncia delicata del paradosso di evolversi e puntare al futuro tra precarietà ed eccessi di vario tipo. Parte lenta e innesca poi un vortice tra un tappeto elettronico che scandisce il ritmo e tante chitarre che sfociano in un mix quasi progressive e hard rock. "Qualcosa resterà", e in parte anche la bella "Non riesco a muovermi", sono invece molto cinematografiche: accendono immagini in testa e sono forse influenzate, nella scrittura, dalle soundtrack firmate da The Niro di recente (per esempio "Mr. America").
Scorrendo l'album si incontrano pezzi pop, ma estremamente elaborati, come "Vanità" o "Colpa mia". E momenti più intimisti e teatrali, come "Ormai" o "Eroe", che vanno in una direzione più sperimentale. Cantautorato raffinato è, infine, quello di "Pindaro", che al primo impatto può ricordare personaggi come Carmen Consoli, nell'attitudine compositiva un po' barocca ma pur sempre speciale.
Un disco che racchiude dunque tanti spunti diversi. Che strizza l'occhio a tanti pubblici, coniugando il brano perfetto per la radio con lo slancio creativo su cui moltissimi faranno skip. Un lavoro d'alta qualità, senza sbavature. E che, proprio per tutte queste ragioni, forse un difetto ce l'ha: si fa fatica a trovargli un'anima. Quella che ti fa emozionare tantissimo e ti fa venire la pelle d'oca. Spunta qua e là, perché lo sappiamo che c'è e i pregi di questo artista sono tanti. Ma non emerge come meriterebbe. Siamo cambiati noi? Può darsi. Ma, forse, è che Davide ci aveva maledettamente viziati.
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