L'esordio dei Black Sheep e i due volti di un lavoro a tratti acerbo e a tratti virtuoso.
In un mercato musicale in difficoltà e in cui farsi conoscere risulta piuttosto complesso, la scelta dei Black Sheep di distribuire questo loro primo lavoro – autoprodotto – gratuitamente sul portale della band risulta interessante. E interessante, in fondo, è esattamente il termine che viene in mente più spesso ascoltando "Black Sheep".
La band nasce dalle ceneri di due diverse cover band, rispettivamente dei Deep Purple e dei Van Halen, e impiega i primi tempi della neonata formazione perseguendo questa stessa via di cover di grandi artisti rock e hard metal, per poi cambiare rotta e decidere di iniziare a scrivere musica propria. Nel 2014 nasce dunque il primo full lenght di cui è già apprezzabile la grafica di copertina, semplice, monocromatica eppure altamente evocativa di un'emersione dal tempo, di un premere dal basso verso l'alto – e verso la superficie – di istanze simboliche.
Otto brani, tra i quali un'insospettabile cover dei Fab Four, quei Beatles che non ci si aspetterebbe di trovare in un album dichiaratamente heavy metal classico e melodico, vanno a delineare un quadro chiaro e, sì, interessante. Fin dal primo pezzo, "Metal Gate", che intuitivamente vuole aprire i cancelli dei regni del metal, si apprezza la solidità dei riff di chitarra, pilastri insostituibili di tutto l'album, in un variare dal sostegno della melodia fino ad apici di virtuosismo decisamente rilevanti. Le aggiunte di synth, sparse come lucciole attraverso l'opera, conferiscono un tocco di modernità a sonorità che sembrano emergere direttamente dai tempi d'oro di questo genere indimenticato e probabilmente eterno, al quale, tuttavia sembra rifarsi in maniera un po' troppo pedissequa il vocalist.
Se il comparto chitarristico è inappuntabile, lo stesso non può dirsi per l'aspetto canoro della band, appiattito in soluzioni vecchio stile e in un range espressivo che migliora decisamente quando spara verso l'alto e che invece perde in qualità nelle zone più scure dell'arco tonale. Non che le qualità vocali manchino, Paolo Veluti possiede un timbro interessante e un colore limpido molto lontano dalle sfere del growl e dello scream, rendendolo forse più adatto a soluzioni progressive che heavy. Le lyrics sono un altro punto interessante, ma anche debole, puntate verso la ricerca di declinazioni sofisticate che, tuttavia, risultano invece un po' ingenue.
Nel complesso, si può dire che i Black Sheep abbiano creato un lavoro di buon livello, soprattutto da un punto di vista strettamente strumentale, che presenta alcune caratteristiche di band acerba. Interessante, però, e grezzamente scabra.
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La recensione BLACK SHEEP di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-05-26 00:00:00
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