In questi ostili anni dieci, gli artisti sono costretti a confrontarsi con un limite creativo non da poco: "tutto è già stato ideato, pensato, partorito". Per fortuna c'è qualcuno che non ne sente il peso e va avanti.
Il disco dei Sundae si apre con “Spring”, che per quanto dipinga, per titolo e per testo, le corse sui risciò e i cromatismi della bella stagione, le rinascite, a me evoca il nero dei The Cure. E questo è tutt'altro che un brutto segno. Il gruppo milanese si attiene ai caratteri descrittivi di presentazione: batteria in perfetto indie style, synth di scuola 80's-90's e schitarrate brit-pop mentre nel frattempo resuscita il Robert Smith che cercava di scrivere qualcosa pop ma anche punk-rock-new wave, quella cosa impossibile che riuscì solo alla sua band. La vittoria dei Sundae si annida proprio in questi loro caratteri completamente incasellabili nei generi sopra citati ma nel contempo rielaborati con la loro straordinaria, delicata energia, la freschezza compositiva e la spontaneità d'intenti. "Gradients" sembra esser stato scritto senza troppo rimuginare su a chi o a cosa potesse essere associato o ricondotto, i ragazzi hanno abbracciato la british beat invasion e si sono espressi di conseguenza. Si percepisce al primo ascolto. È come le impressioni a pelle.
C'è “Sunburn” per qualsiasi passeggiata in due, “Dive” per tutti i momenti di pensierosa intimità, “Greentings” per i viaggi mentali e non. E gli altri pezzi stanno benissimo nel mazzo, come dei jolly, perché è sempre il momento giusto per ascoltare i Sundae. Bravi.
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