Un disco molto buono ma simile a tanti altri
Ben Slavin è il classico cantautore di folk americano. Come Beirut, ha scelto la via del viaggio e dell’emigrazione (vive infatti a Napoli), usando il suo vagabondaggio come materiale grezzo per la composizione dei suoi pezzi. L’album, pur essendo molto vario, si inquadra perfettamente nel panorama neo-folk che si è delineato negli ultimi anni. Il finger-picking intimista di "Beauty & Filth" e "As We Grow Older", ad esempio, pur ispirato da influenze sixties, non può che rimandare alle atmosfere da film indipendente americano in stile "Juno" o "Little Miss Sunshine", rientrando, dunque, in un immaginario ampiamente saccheggiato dalla produzione cantautorale odierna. "Unaccessible" e "Eruptions Flood And Signora Concetta", con quei groove galoppanti e quei ritornelli radiofonici, ricordano invece gli anni ’90 di Eagle Eye Cherry e Alanis Morrisette.
Sulle emozionanti marce orchestrali di" Tie & Bound" e "Poulenc’s Grave", in cui il violino assume colorazioni a tratti stranianti e a tratti epiche, poco da dire, se non che introducono alla perfezione la cover di "For Free" di Joni Mitchell, l’unico pezzo della tracklist in cui si avverte sul serio il peso che l’eredità degli anni ’60 esercita su Slavin. La title-track "Palepolis" è una vivace virata folk, mentre, a chiudere l’album, troviamo "Home", una super-ballatona in stile The Band, in cui la nostalgia di casa si fa sentire anche in un arpeggio di banjo che accompagna gran parte della canzone.
Insomma, Ben Slavin ha composto un buon album, in cui le capacità di scrittura si abbinano a degli ottimi arrangiamenti. Unico neo, "Palepolis" è un disco a cui non si può chiedere più di così, perché in fin dei conti, le risposte che dà sono le stesse di molti altri.
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La recensione Palepolis di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-01-20 23:30:00
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