La dura bellezza, lo splendore doloroso, la fastidiosa meraviglia
La bellezza dura, come di quei visi imperfetti che raccontano storie che gli occhi non riescono a trattenere, come le vite inciampate negli errori ché alzarsi col piede sinistro diventa presto un’abitudine e subito dopo un vizio, come i riferimenti essenziali che si dissolvono sotto il peso di un’incolmabile distanza tra noi e ciò che speravamo di diventare. Dio, la famiglia, le relazioni, cosa resta al netto dell’esperienza, se non la verità, ed è lì che diventa un pugno dritto in faccia, ogni giorno più dritto e intenso, un processo quotidiano che fa scoprire l’infelice splendore delle ferite, degli sbagli, della solitudine. La bellezza sporca del sentirsi inadeguati, piccoli, lontanissimi dagli standard, e trovare nei ritagli di un’esistenza diversa il succo stesso di una persona, un succo amaro e denso e ricolmo di parole che ti attirano, ti conquistano, una voce stirata e attorcigliata e tesa dal dolore, non quello dei poeti né dei cantautori sofferti, quello puro e semplice di chi sa cos’è.
Ogni rapporto, con sé e con gli altri, diventa una forma complessa di battaglia, un misto d’odio, amore, rabbia, compassione e lotta che parte naturalmente dal nucleo che ci accoglie e si riversa poi nel mondo che ci costruiamo o che spesso si crea intorno a noi anche contro i nostri desideri: tu che mi vuoi bene, mi guardi crescere e invecchiare, tu che mi baci e fai l’amore con me, tu che mi hai dato la vita e tu che hai provato a togliermela entrandomi a fondo nelle vene e nel cuore, tu, stavolta, come mi ammazzerai? Perché il padre, la madre, il sesso, i demoni (che siano figli di eroina o disoccupazione o male di vivere poco importa) sono figure che ci portiamo dentro tutti, morbide guerre o duelli all’ultimo sangue, tiepidi scontri per arginare un poco la tristezza o anni di trincea, a difenderci coi denti, a rimandare indietro le lacrime, a intrattenere risse furibonde col presente ché per il passato non abbiamo più le forze necessarie.
L’anima di Edda traspare limpida e innocente in questo disco che è un mare di dolore, una piena di sincerità violenta che non può lasciarti indifferente: non t’accarezza, non strizza l’occhio, ma ti afferra alle spalle gettandoti a terra, ti blocca lì dove sei e il sapore che ti ritrovi in bocca non è affatto buono, sa di dura bellezza, di cruda verità, di ciò a cui cerchi di non pensare. Da “Pater” che è dirompente per il suo incipit (”Tutte le volte che vedo mio padre esco di casa con la voglia di ammazzare”), con la ritmica montante e la chitarra che pare consolare le anime perse, così profonda e pulita, l’acida “Coniglio Rosa”, una sorta di stato di famiglia secco, nervoso e distorto, la meravigliosa “Tu e le Rose” perché l’amore non è solo dei romantici e un uomo e una donna possono trovarsi, e perdersi, in molti modi ( “Ho il dolore di non aver saputo amare te. Nessuno però potrà portarmi via l’amore, di averlo fatto davvero con te”).
Il lacerante urlo di “Dormi e Vieni” (”Non mi lasciare sola”) che ti fa mordere le dita, la viscerale “Puttana da un euro” per scoprire che non vali niente, “Mela” e la sua presa sussurrata e asciutta che è come camminare nella notte di un giorno difficile, che non è detto che ci siano sempre le stelle, “Mater” che è in fondo espiazione, rimpianto e fatica, per non essere ciò che una madre vorrebbe, la splendida chiusura di “Saibene”, brano di una dolcezza scura, vibrante e dolorosa di un sentimento non corrisposto che finisce col verso ”Chi dice la verità non può chiamarsi Rampoldi”: perché la verità non è una sola, perché inganniamo noi stessi raccontandoci ciò che serve, perché l’illusione è spesso necessaria.
Dopo l’intimità acustica di “Semper Biot” e gli sbalzi d’umore sperimentali di “Odio I Vivi”, Edda torna con una band e un disco decisamente suonato, col suo linguaggio scarno e schietto, coi ritratti da poche pennellate eppure così chiari, ed è come se dalla fragilità nascesse la forza, dalla diversità la condivisione: perché la diversità, benedetta, è preziosa ed è sempre un valore aggiunto, e questa aspirazione a diventare tutti uguali ci mangerà vivi. La dura bellezza, lo splendore doloroso, la fastidiosa meraviglia: “Stavolta Come Mi Ammazzerai?” è questo, è tutto il bene e il male che mi vuoi, è la parte più difficile di ogni rapporto, filiale, carnale o emozionale che sia, è la verità che spesso non accetti perché non conforme ai canoni, perché trasuda devianza, perché dicono non sia “politically correct”. Chi se ne fotte, io lo amo.
---
La recensione Stavolta come mi ammazzerai? di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2014-12-01 00:00:00
COMMENTI (1)
Lo amo anche io! Rampoldi rinasce Edda per dire la verità e..fanculo tutti!