Che Mario Venuti sia artisticamente figlio adottivo di Franco Battiato non lo si scopre certo oggi. In "Venuti dalle Madonie a cercar Carbone", disco epocale dei Denovo, Battiato forgiò persino il sound. Da lì in poi inizia la carriera solista, che non posso certo dire di aver frequentato con costanza ad ogni singola uscita.
Mi capita quindi, fra capo e collo, la recensione de "Il tramonto dell'occidente", che avrei volentieri evitato. Risuonano infatti ancora nelle orecchie le piacevoli note di "Kamikaze bohemien", sicché l'ascolto ripetuto di queste 11 tracce genera più fastidio che altro. Non bastano infatti all'ex Denovo i featuring alla voce di Bianconi e Kaballà (entrambi complici anche in fase di scrittura e produzione), Carnesi, Alice, Giusy Ferreri e dello stesso Battiato a risollevare le sorti di un'opera complessivamente fiacca e dalle liriche dallo spessore sottilissimo. In aggiunta, la produzione di alcuni brani ha questo difetto di essere particolarmente invasiva (a chi attribuire la responsabilità fra i 3 rimarrà una domanda irrisolta), al punto da rovinare quanto di buono poteva emergere se le scelte fossero state diverse.
Sia chiaro: quelle rare volte in cui le cose funzionano come si deve, ovvero 1 volta su 4 ("Ventre della città", "Tutto appare", "Il banco di Disisa" e, su tutte, "Arabian boys"), parliamo di canzoni appena sopra la sufficienza. Poi, per carità, apprezzabile il tentativo di voler realizzare un concept sul tramonto dell'Occidente e, al contempo, di smarcarsi dalla sua tipica cifra stilistica. Però davvero non si può proprio sentire Venuti che in apertura fa il verso ai Planet Funk e al french-touch (a voler esser buoni) liquidando la vicenda con versi del tipo: "La deriva dei continenti e dei costumi dei presidenti nuovi mondi fa disperare / ogni impero si conclude senza rulli di tamburi / solo ruberie e volgarità / stanchi di morire nella noia quotidiana". Già più accettabile la successiva "Ite missa est", musicalmente frizzante sulla scia dei Phoenix le cui liriche e il sound sembrano marchiati a fuoco da Bianconi, mentre "I capolavori di Beethoven" dovrebbe essere il pezzo forte dell'intera opera, potendo contare sull'ospite di grido, quel Franco Battiato di cui sopra; alla fine, invece, risulta un brano di maniera dove Battiato fa esattamente... Battiato. Non so voi, ma avrei giocato diversamente le carte, non accontentandomi di un featuring pre-confenzionato. Ma tant'é: sono scelte artistiche e come tali vanno rispettate.
Su "Passau a Cannalora", cantata interamente in dialetto, non spendo molte parole: semplicemente non mi piace e potrebbe darsi si tratti di un mio problema. Atteggiamento identico quando è il momento di "Ciao American dream" (adattamento di "Ashes Of American Flags" intestata agli Wilco), che calza a pennello in un concept del genere ma il cui testo suona fortemente retorico in questa versione all'italiana ("La Coca-Cola per la sete che verrà / Ho venduto i desideri che cosa darei per non svegliarmi più / Che calore che fa il sole di Wall Street / Cieli azzurri e falsi dei per sentirci uomini / Crediamo nel domani ma chissà se arriverà"); cio senza contare l'utilizzo gratuito del vocoder, a sproposito almeno quanto il tentativo (mal riuscito) di voler replicare l'universo sonoro e la poetica di Jeff Tweedy, distantissimi da quelli di Venuti.
In definitiva è un NO, per di più maiuscolo e senza molti giri di parole.
P.S. Fuor di recensione, un parere spassionato: la vera sfida, in tema di featuring, sarebbe stata coinvolgere gente come Niccolò Contessa de I cani, Fabio De Min dei Non Voglio che Clara, persino Appino degli Zen Circus. Forse rischiare in questi termini avrebbe avuto più senso.
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