Mettiamo il cd nel lettore e lanciamo il primo brano “Lady noia” i cui 30 secondi iniziali fanno pensare seriamente ad una produzione electro. Tuttavia, smaliziati da numerosi ascolti, ben coscienti della ferale pratica diffusa tra le band emergenti di concentrare ogni anelito di sperimentazione nell’intro della prima traccia, freniamo l’entusiasmo: appena in tempo per sentir progredire il pezzo in ambiti decisamente più addomesticati. La formula scelta dai Merizero, è bene dirlo subito, non brilla certo per originalità: un pop-rock chitarristico assai melodico, circoscritto in strutture strofa-ritornello-ponte-assolo anacronistiche che ricalcano fedelmente tutti i cliché più collaudati del genere, inclusi stacchetti da jingle radiofonico. La voce, manco a dirlo, è enfatizzata nel missaggio da una sanremese sovraesposizione, che si mette da parte solo per lasciare il campo a prolissi vetusti assoli di chitarra. L’elettronica, accennata nei primi istanti, viene ridotta, come da copione, al solito blando maquillage che di sovente si adotta nel tentativo di svecchiare delle idee alquanto retrodatabili. Fin qui il trionfo della banalità, e le sporadiche parentesi, più raffinate, in cui fa la sua comparsa un flauto traverso in odore di Ozric Tentacles, certo non bastano a porvi rimedio. Le melodie, trasfuse in tale scontatezza di contesto, non possono che risultare stanche: l’immagine che viene frequentemente visualizzata durante l’ascolto è quella di un Eros Ramazzotti che incontra un Francesco De Gregori in un locale per rockettari ottantiani in pensione. I testi non sono affatto brutti o insulsi, a dire il vero, ma neppure sufficientemente brillanti da sostenere da soli il peso degli arrangiamenti triti e ritriti. Ad esempio, “Sole Nero” propone un impegnato parallelismo cronologico tra gli spiacevoli eventi dell’11 settembre del 2001 e del 1973, ma purtroppo il duetto sanremese, intercalato dall’assolo, con reprise a seguire e gorgheggi vari, è davvero qualcosa di antico (nel senso deteriore del termine). Lo stesso discorso vale per “A morsi”, che lancia dei messaggi abbastanza forti di contestazione, ma si perde negli stilemi di un rock troppo datato. “Contessa”, nella sua banalità, ha qualche spunto arrangiatorio più interessante, ma la palese refenzialità a De Gregori nel cantato ne compromette l’esito. “Giulia” è una cover dei Pavlov’s Dog, un gruppo degli anni ’70, tradotta in italiano, riarrangiata e reinterpretata in un modo da costituire un ibrido tra una ballad dei Metallica e una canzone di Michele Zarrillo, zavorrato da esattamente due minuti di assolo in coda. “Oltre” assomiglia alle centinaia (migliaia?) di mediocri prodotti cantautorali italiani, con l’aggiunta di intro e outro dal flavour chitarristico hendrixiano. “Alieno” e “At bites” sono, infine e rispettivamente, un brano strumentale e una versione anglofona di “A morsi”, che nulla aggiungono e nulla possono togliere al generale punto interrogativo che aleggia su questo lavoro.
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La recensione Tracce di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2003-08-18 00:00:00
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