Una manciata di canzoni riguardanti la nostra epoca, per spiegare che i tempi sono cambiati. In peggio. Le guerre, l'offensiva del neo-liberismo, le insicurezze dei lavoratori, le lotte per il posto di lavoro: argomenti tornati di prepotente attualità. E sviscerati senza retorica da una band che ha deciso di mettersi a cercare nuove forme di espressione.
I Groovers sono cambiati, ed è sufficiente sentire come suona questo disco per convincersene. Ma i prodromi della loro trasformazione non erano passati inosservati. Chi ricorda "Do you remember the working class", datato 2001, si era già accorto che il legame con il nord America, in particolare con il roots-rock ed il paisley-underground, cominciava a scricchiolare. "A handful of songs about our times - volume 1", ne è la prova più evidente. Se l'America settentrionale rimane saldamente nell'immaginario della band piemontese, l'apertura a suggestioni indie è molto più di una coincidenza. Si tratta, con tutta probabilità, della volontà di testare un nuovo corso artistico, attraverso il quale Michele Anelli e (l'ex Settore Out) Evasio Muraro si sono decisi a scoprire, o meglio, riscoprire numi tutelari come Wilco, R.E.M., Billy Bragg, Neil Young.
E lo fanno a volte con cupezza ("My words don't have two faces", "Men and dust", "Working class hero", "Strike"), usando accentuate dosi di minimalismo ("Noise and silente"), di psichedelia ("She's a different girl", nonché le brevi incursioni come, ad esempio, "No time we had"), oppure mettendo mano a classiche ballate ("Let the good time roll", "Another rainy morning"). Minimo comun denominatore, i riferimenti al sociale, i testi dedicati a quella 'working class' che, per i piemontesi, sembra quasi essersi trasformata in un'ossessione. Come tanti compagni di lotta che hanno abbracciato le tesi del combat-rock, i Groovers hanno scelto di mettersi dalla parte dei più deboli, dei poveri e dei perdenti. Con la differenza che la loro scelta artistica, questa volta, ha fatto perno non sulla forza eversiva del rock & roll più classico, ma su di un percorso che ha lasciato le porte aperte a più di una contaminazione. Ed il risultato è, senza dubbio alcuno, incoraggiante. Anzi, diciamola tutta: "A handful of songs…" è bellissimo.
Un lavoro come questo, tra l'altro, ha il non trascurabile merito di affrancarsi dalla tradizione, tutta nostrana, che vuole le canzoni (chiamiamole così) di protesta legate, non si sa per quale legge non scritta, ad una forma tradizionale, cantautorato o rock più o meno tout-court che sia. La traduzione in italiano delle liriche gli forniscono un valore aggiunto, mentre la dicitura finale ("volume 1"), lascia presupporre che ci sia un seguito. Ce lo auguriamo. Chissà, forse con canzoni cantate nella nostra lingua. Basterebbe solo un po' di coraggio. Come hanno fatto i Gang.
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La recensione A handful of songs about our times (vol. 1) di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2003-08-18 00:00:00
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