Quello di Antonio Firmani & The 4th Rows è un album ricco di immagini, teatrale, che ti fa costruire in testa sceneggiature assurde. Potremmo definirlo quasi un audio book, che asseconda la nostra immaginazione portandola nei meandri delle storie raccontate tra le tracce.
In “We say goodbye, we always stay” è inevitabile non notare una grandissima teatralità, sia nell’interpretazione che nella scelta degli strumenti, che rimanda l’orecchio a una scelta stilistica decisamente esterofila: il folk dei Fleet Foxes, la ricercatezza dei Bombay Bycicle Club, il polistrumentismo dei Get Well Soon, il pop degli Of Monsters and Men. Un mix che, all’interno della fauna di band italiane, solo i The Please hanno avuto il coraggio di osare magistralmente. Antonio Firmani & The 4th Rows si sono spinti oltre, hanno sperimentato ulteriormente tralasciando il blues, diminuendo il folk e dando più aria al pop. Il risultato è un bel lavoro, equilibrato, studiato e coraggioso. L’unica pecca è un eccesso di sterilità e distanza; sembra tutto già deciso e calcolato, come un progetto perfetto di un architetto minimalista.
“Last two years” è il pezzo in inglese più coinvolgente della tracklist, fiati, chitarra e coretti si alternano perfettamente creando atmosfere avvolgenti che ti rimangono in testa e ti canticchi quando meno te l’aspetti. Un lavoro da piccolo alchimista malefico. “Supermela” è uno strumentale malinconico alla Yann Tiersen che rimanda a storie di ipotetiche Amelie infelici che cercano di strapparti un sorriso con un glockenspiel. Un pezzo che farebbe addolcire qualsiasi cuore di pietra prevenuto sul genere.
“Il professore” è invece l’unica traccia in italiano, una piccola meraviglia nascosta. È la conferma di un dubbio amletico che ti assale dalla prima traccia, probabilmente il difetto che ha eroso le fondamenta di quest’architettura perfetta: forse gli Antonio Firmani & Co. hanno sbagliato scegliendo di cantare in inglese? Decisamente sì, visto che questo duetto con Gnut è a dir poco meraviglioso. Musica e voci trovano nell’italiano un comune denominatore, una fiamma ossidrica che li fonde alla perfezione, un pretesto per riascoltare la traccia ancora e ancora.
Nel complesso “We say goodbye, we always stay” è un album pregevole, difficile da cogliere al primo colpo, molto curato e ricercato. Per i futuri progetti della band sarebbe bellissimo ascoltare un loro album scritto in italiano dall’inizio alla fine.
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