È dalla più opprimente solitudine che scaturiscono spesso i flussi di pensiero più illuminanti e, da questi, quantomeno per chi mastica musica tutti i giorni, le inquietudini sonore più evocative.
Lo sa bene Vincenzo Ingraldo, alias Vena, che con le undici tracce di "Of Memories And Nothingness" battezza il suo nuovo percorso artistico sotto il moniker di God In Panic. A suo modo una sorta di concept-album sulle intricate ragnatele mnemoniche della mente umana, una sonica radiografia di quelle insondabili increspature dell’animo che alimentano vita e morte al contempo.
Bastano i primi due minuti stranianti di chitarra loopata de “La serpe in seno” per assaporare, fin da subito, la tridimensionalità di un altrove corvino e minaccioso, eppure, a tratti, rivelatore, come una voce guida nelle tenebre più annichilenti. Da lì in poi, fino alla fine, altre dieci cupe visioni che si dividono, per songwriting, tra il Jérôme Reuter più marziale (“The inverted sun”, “Unconventional eden”) e la densità immaginifica di un Michael Gira ingoiato dalla notte (“Deserte yes turned to stone”, “On ruins”, “Of memories/The great slumber”) e che musicalmente si nutrono di una magnetica perdizione onirica che fa bella persino la morte, in quel suo fluttuare tra gli abbracci letali di un Lustmord (“Alphajerk” e “Hold my toughts”) e gli spasmi elettrici dei Depeche Mode più allucinati (“YZR”).
Una danza macabra al rallentatore, quella orchestrata dal musicista siciliano, che prende il meglio della scena dark ambient e neofolk internazionale per innescare un’implosione intimistica che ambisce al nulla eterno, fino ad esaurirsi all’interno di un paradiso (o inferno?) alternativo dove forse, chissà, noi tutti vagheremo veramente con i nostri corpi nudi cosparsi di miele (“Unconventional eden”).
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