Un suono dissacrante, provocatorio, uno sputo in faccia a tutto e tutti, come da manuale del punk, e insieme cupo, orrorifico, sulle orme dei primi B-movie e del garage più selvaggio, quello della serie "Back from the grave" e della scena di Detroit, Stooges in testa. Questo il primo germe della musica dei Jesus Franco & the Drogas, che tuttavia tutto vogliono fuorché riprodurre una certa "tradizione" (Sixties o punk che sia), che in fondo sono passati anche cinquant'anni e non è così male che si senta.
Un po' come fanno i Movie Star Junkies di oggi, o facevano i Not Moving di ieri. Due formazioni che, come i Jesus Franco, sfuggono volutamente a qualsiasi classificazione per genere o per "scena", lasciando che sia l'impronta sonora, e non la singola canzone, a parlare per loro e ad identificarle inequivocabilmente.
Con la voce di Andrea Refi al contempo rigurgito dall'oltretomba e invocazione da sciamano ("Halleluja"), le chitarre a riempire ogni spazio alternandosi tra feedback e riff sghembi ("Be-bop-a-loser"), la batteria a dettare la serratissima tabella di marcia. Le atmosfere fosche, opprimenti, s'è detto, di quelle che Ed Wood ci si sentirebbe a casa. Ma con un ritmo che i suoi film non hanno mai avuto.
"Alien peyote" rivela ulteriormente le notevoli potenzilità dei marchigiani Jesus Franco, che solo poco tempo fa sono stati a un passo dallo scioglimento e sono invece ritornati più in forma e determinati di prima, con un disco che se non è quello della consacrazione pochissimo ci manca. Lunga vita.
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