Cominciamo dal titolo. Ostro è il nome di un vento, che soffia dalle parti del Mediterraneo del sud. Quando decide di uscire dal torpore porta caldo e umidità, assieme a tanta pioggia. Gli uomini lo conoscono e lo rispettano da sempre, almeno da quando la loro razza ha deciso di dominare il mondo. Se vogliamo, il vento può essere definito alla stregua di un elemento tribale, assieme alle stelle e alla natura tutta. Fonte di rispetto anch’esse, sia pur pronte a essere sfidate per poterne carpire i misteri che le avvolgono.
Stonehenge, Palenque: i Lay Llamas sembrano arrivare da quelle parti, pare quasi di vederli evocare la terra madre con i loro suoni. I suoni di “Ostro”, condensato di musica tribale del secolo in corso, che viaggia tra gli astri, gli universi paralleli, attraversa il deserto e ascolta le voci della natura. Un album difficile da inquadrare, dall’elettronica calda, dalle movenze narcolettiche, drogato di psichedelia cosmica. L’Oriente è l’elemento essenziale (“Ancient people of the stars” ne è la dimostrazione), il kraut-rock la guida spirituale (dicono niente i Cosmic Jokers o gli Amon Düül?), la techno un richiamo impossibile da respingere, la new age un punto di passaggio obbligato. Tra i nove episodi del disco è facile riconoscere tastiere degne dei Pink Floyd degli esordi o il caos organizzato del proto Franco Battiato, ma i Lay Llamas ce la mettono tutta per sorprendere e non essere mai uguali a loro stessi. E se “Desert of lost souls” è meravigliosamente costruita attorno a un’unica nota di basso, “Voices call” possiede addirittura i crismi di una canzone quasi (quasi) pop.
“Ostro” non è un disco di facile fruizione ma la sua oscura bellezza è fuori discussione. E forse non è un caso che sia stata l’etichetta inglese Rocket Recordings (già, la stessa dei Goat) ad accorgersi per prima delle potenzialità di Nicola Giunta e Gioele Valenti, ovvero l’anima dei Lay Llamas: forse certe sonorità sono ancora troppo distanti dalle nostre lande.
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