Alfred Jarry, Matteo Salvatore, Zdenek Zeman. Il disco lo hanno dedicato a loro. Che sono stati, ognuno nel rispettivo raggio d’azione, innovatori, sperimentatori, geni. E magnifichi perdenti. Come ogni rivoluzionario che si rispetti. Già, la rivoluzione. La cerchiamo, ne sentiamo il bisogno, la evochiamo a ogni respiro. Poi non se ne fa nulla. O forse no.
Per i Freak Opera la rivoluzione corrisponde alla capacità di restare umani e non a “un colpo di stato”. Già, si parte dalla coscienza. A patto di fare i conti col passato, non per rinnegarlo ma per evitare di crogiolarsi su quello che è stato o poteva essere. E poi, “il passato fa schifo”. “Il libro nero della rivoluzione” è compendio di vita, è atto di accusa nei confronti di chi ha l’ardire di rimpiangere, è ironia. Dieci pezzi sospesi tra rock barricadero e inclinazioni folk, tziganate (“Paura del sangue”), morbidezze improvvise (“Leggera come una piuma”), sangue che cola (“Fino a domani”), episodi che sembrano omaggi a Fabrizio De Andrè (“La grandeur”) o a all’indie il più possibile obliquo (“La gerbere” e “Gli anni migliori”). In fin dei conti, un’operazione ben riuscita, che riesce a fondere chitarre affilate e ricami folk senza cadere in chissà quale trappola, che guarda al rock d’autore come modello e si aggrappa all’attitudine punk per non disperdere in troppi rivoli l’energia prodotta. Da ascoltare prima di ogni tentativo di sovvertire il mondo con una rivoluzione (della coscienza).
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