Con la chitarra acustica, qualche loop, lo slide, la stomp box e la sua voce, Amaury canta e suona le canzoni della sua vita
Questa volta le cose si fanno semplici, come non lo sono mai state in tutta la carriera degli Ulan Bator. Splendenti, acute, taglienti, abrasive, pungenti, accecanti di luce bianca o nera, quello sì. Notturne, intricate, a volte persino sognanti, ma mai semplici. Tolte le sovrastrutture, le distorsioni, il ritmo, i bassi, tolto il volume, tolta la voce rotta, quello che ci rimane è un uomo, Amaury Cambuzat, da sempre leader della band francese (anche se mezza italiana d'adozione) e la sua chitarra acustica.
Si dice che un uomo non possa essere un'isola, che ci sia bisogno di connessioni, di coinvolgimenti e di collaborazioni, ed è senz'altro vero, nella vita servono, allo stesso modo in cui serve il momento di solitudine, di quiete, di decompressione, per schiarire la testa e fare il punto della situazione senza tanto casino intorno. Questo album unplugged sembra sia la rappresentazione registrata di quel momento.
Con l'acustica, qualche loop, lo slide, la stomp box e la sua voce, Amaury canta e suona le canzoni della sua vita. Pochi accordi iniziali e già si capisce tutto il lavoro. "La Joueuse De Tambour", tratta da "Ego Echo" (2000), da sparata a mille, diventa una delicata ballata folk, "Mister Perfect" perde la sua cadenza originaria e si addolcisce, un classico come "Lumiere Blanche" (1997) non è certo semplice da eseguire senza urlare, senza strapparsi l'anima, ma anche la nuova versione, all'anima, ci arriva. "Hiver" si veste di folk americano, "Along the borderline", suonata così, potrebbe finire nella colonna sonora di un film in stile Sundance, nella intro di "Embarquement" si sentono echi dell'attività con la band, un po' di rumore, di sperimentazione.
In realtà, del rumore di cui sopra, non ce n'è bisogno, questa volta. Amaury Cambuzat qui diventa cantastorie, crooner nero, menestrello da folk dell'apocalisse, ma anche delicato interprete dei suoi stessi pezzi, che tratta con tutte le cure. Come figli. Si intravedono spiragli di dolcezza, per quanto possa averne l'uomo che ha sacrificato la propria esistenza all'altare del kraut e del post rock, della musica per la quale ogni volta che tenti di definirla e di arginarla, senti di aver fatto una stupidaggine.
Per chi non avesse mai ascoltato gli Ulan Bator in vita sua, questo potrebbe essere un modo originale di conoscerli, ma non il più consigliato. Il neofita potrebbe rimanerne piuttosto fuoriviato, oppure potrebbe innamorarsi dei pezzi in questa veste e poi non riconoscersi nelle versioni originali. Per i fan, invece, sarà un bel viaggio, intenso, come lo è stato per noi.
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La recensione Amaury Cambuzat Plays Ulan Bator di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-03-06 09:00:00
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