"Sono solo tre ore che aspetto"- Matteo Bonechi, Jannacci e la provincia.
Undici brani per trentatrè minuti di prelibatezze d'altri tempi, è questa la formula di "Sono solo tre ore che aspetto", il disco di debutto di Matteo Bonechi, cantautore pratese nato negli anni ottanta ma musicalmente residente tra i '50 e i '70, gli anni di Jannacci e Gaber, dell'allegria triste di "Azzurro", gli anni del cabaret e del rock'n'roll all'italiana, anni in cui sembra collocarsi senza troppa fatica "Quattro Novembre", primo singolo estratto dal disco, capace di evocare atmosfere da Far West di periferia, caldi infernali e stupore, lo stesso che si ha ascoltando "Curriculum Vitae" e tutte le altre tracce dell'album, merito di testi scritti benissimo con parole dosate e scelte con una precisione estrema; i contenuti, mai banali, non sono alla moda pur essendo attuali, per niente indie ma di qualità, quella che con il tempo ci stiamo abituando a dimenticare.
Bonechi canta con un voce distaccata la disoccupazione di chi "per inciso" non è "ingegnere spaziale", canta il Giro d'Italia e chi lo aspetta sotto "un caldo ottomano" senza poter fare i compiti per il giorno dopo; in "Hipster", parla di diete alla soia e barbe lunghe curatissime e, che sia accompagnato da tromboni da banda di paese, da un solitario pianoforte o da violini strappalacrime, mantiene un'aria da cronista snocciolando descrizioni precise con un'ironia tagliente.
La produzione è di Andrea Franchi, batterista di Paolo Benvegnù, sicuramente lungimirante nel prendere in mano un progetto meritevole e originale e costruire un sound vintage su un cantautore di provincia di cui senza dubbio sentiremo ancora parlare.
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La recensione sono solo tre ore che aspetto di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-04-11 00:00:00
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