Una palude country-folk di storie e filastrocche in chiave cantautorale
Una casa di campagna, due bottiglie di vino di dubbia qualità, animali da cortile che si azzuffano, cielo sereno e caldo quasi insopportaile, e poi insetti. Tanti insetti alcuni dei quali telecomandati a lungo raggio per colpire l'umanità con il fastidio.
È questo il quadro che rappresenta con discreta precisione il secondo disco di Eugenio Rodondi, "Ocra". È un colore discutibile l'ocra, va bene per alcune cose come le tovaglie, i fazzoletti da naso, i costumi da bagno. Per la maggior parte delle cose però è un pugno in un occhio, come per i vestiti (a meno che non siate in un film di Wes Anderson), le tappezzerie in genere, la carrozzeria della macchina, il cibo tranne la senape.
Questo album nella totalità invece, pur avendo una copertina ocra suona oggettivamente bene, con la dose di leggerezza misurata delle filastrocche per bambini nei testi e gli arrangiamenti caldi adatti a storie di indiani e cowboy dei giorni nostri. Nelle dieci canzoni in scaletta si annusano le polveri da sparo dei duelli dei dieci passi alla maniera di Sergio Leone, tra rock, folk e country-blues, le suggestioni si susseguono sfumate con pochi chiari fili conduttori che legano la tracklist senza arrivare alla monotonia.
Il cantautore torinese ama dondolare con la chitarra acustica costruendo piccole impalcature ridondanti come cantilene ma decorate con gusto e trasfomate in vere poesie alla Branduardi come la title-track "Ocra" che apre il disco, pezzo di pop ruffiano travestito da canzone da deserto americano in cui l'armonica diventa protagonista. Difficile dare l'insufficienza alle canzoni di Rodondi, nonostante si assomiglino molto l'una con l'altra riescono sempre a trovare nel finale una svolta che ti colpisce, sia questa legata al suono, a qualche stranezza strumentale, o a un particolare arrangiamento vocale che riesce ad entrare in testa. L'esempio lampante è "La notte dei camaleonti", forse il pezzo più debole dell'intero lavoro, una canzone che sembra quasi un riempitivo per l'anonimato in cui cade rispetto alle altre, ma quel continuo sottofondo di latrati ed ululati che culmina ed emerge nel finale, da solo rende il pezzo valoroso.
I racconti contenuti in "Ocra" sono ricchi di morale, la storia della formica operosa e previdente contrastata dalla lasciva e cantante cicala viene rivisitata alla maniera trasognante e bembinesca di Tricarico, sensazioni più cupe ma alla stesso tempo romantiche si percepiscono in "Mariel e il capitano" dove la storia d'amore travagliata tra una giovane e un capitano di corvetta, viaggia sui binari de Il Pan del Diavolo (curioso l'utilizzo di una lingua di Menelik nel finale). La sensazione di vuoto "Horror Vacui" è cantata come farebbe Dente: "tutte le notti a fare tardi invano, col negroni nella mano", ed è subito dannazione.
Il miglior brano è senza ombra di dubbio "Trattamenti di fine rapporti", per l'ottimo arrangiamento di ritmiche ed effettistica, e quel flauto traverso alla Jethro Tull che riempie la melodia e la sostiene morbido, mi ritorna alla mene la seconda parte di "La cura giusta" dei Timoria in cui lo stesso trumento regge l'intero brano. Nel finale la citazione (?) di "Paint It Black" dei Rolling Stones sembra chiamata gioco forza dall'andamento del brano, e ci sta pure bene.
Gli insetti infastidiscono ma senza nuocere, se lasciati in vita il loro ruolo nei primi anelli della catena alimentare lo svolgono silenziosamente, o quasi, e risultano fondamentali. Eugenio Rodondi ha cura di tutto ciò che è fondamentale nella musica: calore ed abilità compositiva, unire suoni belli e parole significative. "Ocra" è un disco che pare trovare la sua dimensione nei piani nobili del palazzo del cantautorato, più in alto si arriva tramite un ascensore chiamato sperimentazione.
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La recensione OCRA di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-04-02 00:00:00
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