Un bizzarro mélange etno-psych-elettronico: fulmineo ma intenso il trip esotico-lisergico-cinematografico dei Babau.
Bianchi fuori ma meticci dentro. Marchigiani all'anagrafe ma cittadini del mondo per vocazione. Luigi Monteanni e Matteo Pennesi sono soltanto due dei tanti che vorrebbero la pelle nera, quanto meno a livello artistico e creativo. Ci tengono a farlo sapere già dal nome che si sono scelti - Babau, ovverosia l’uomo nero del folklore italiano - e a ribadirlo concretamente attraverso la loro strana psichedelia, satura di cupe ibridazioni etniche e colti riferimenti alla world music.
"Papalagi" è un piccolo mélange sonoro dalle tinte corvine che in appena quattro composizioni prova a farci assaporare la parte più misteriosa e inquietante di certa ritualità esotica, come in una sorta di fulmineo trip lisergico-cerimoniale-cinematografico: è tra oscure movenze sciamaniche ("Faus"), indolenti processioni sacrificali (?) che sembrano estrapolate dall' "Apocalypto" di Mel Gibson ("Ila 'no Kuaili"), sinuosi esoterismi à-la Santana ("Palo Majombe") e divertissement ambientali dalla riconoscibile flemma orientale ("Palma Hayek") che si dipana l'immaginario del duo maceratese, visibilmente affezionato a un post-rock infarcito tanto di elettronica quanto di tribale manualità.
L'impressione, alla fine, è quella di ritrovarsi sperduti in un non-luogo a metà strada tra lo stordimento oppiaceo e il rapimento mistico, all'interno del quale coesistono magicamente minacciose giungle asiatiche, fascinazioni centro-americane, vibrazioni africane, lunghe ombre Moai e allucinogeni californiani di fine '60.
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La recensione Papalagi di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-04-21 00:00:00
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