Flavio Giurato
La Scomparsa di Majorana 2015 - Cantautoriale, Alternativo

La Scomparsa di Majorana
11/05/2015 - 09:00 Scritto da Giuseppe Catani

Flavio Giurato è tornato. E “La scomparsa di Majorana” è un capolavoro.

Davvero: non se ne poteva più. Di macerarsi tra gli arriva e i non arriva, dei tempi insopportabilmente biblici, di sperare che le (sia pur sporadiche) esibizioni dal vivo mantenessero le promesse. Alla fine il ritorno – l’ennesimo – è riuscito a materializzarsi. E a elargire un nuovo Flavio Giurato. Così lontano dagli esordi, dai tuffi dal trampolino, dalla corte del Gran Khan o dalle più recenti lezioni di cantautorato. “La scomparsa di Majorana” è un disco di artigianato puro, curato nei dettagli, “manifesto e apologia dalla musica organica garantita senza bpm, album dedicato soprattutto alla grande ricerca degli armonici”. Traduzione del comunicato stampa: basso e batteria assenti, ricerca della perfezione imperfetta, cura maniacale dei particolari gestita dalle mani sapienti del produttore e uomo ombra Piero Tievoli. Una questione di qualità. Che gira attorno a chitarre piene e rotonde, ad arpeggi ondivaghi e armoniosi, trasognanti, ipnotici, a volte maestosi, altre minimali. E a una voce bellissima, ieratica, che meriterebbe un capitolo a parte. Ce n’è per ritrovarsi tra i fuochi di un suono avvolgente e carico di pathos, a volte torbido, intriso in dieci capitoli imbrattati di sangue. Pugnalate ai fianchi e al cuore, anche quando spira aria di (a volte apparente) spensieratezza o di feroce ironia.

Di certo Giurato spiazza in continuazione, affidando l’apertura e una scheggia impazzita come “Los Alamos” per poi arpeggiare in modo convinto una superba “Sidi Bel Abbés”, piombata lì non per caso, come vedremo. Poi rimangono testi non sempre di facile fruizione, decomposti, pieni di flash back impietosi, di piani narrativi uno intersecato all’altro: vero, non è una sorpresa. Ed è così che dalla complessità escono fuori insospettabili riferimenti a Giorgiana Masi (“Gatton gattoni”), stridenti fiabe atemporali (“I cavalieri del Re”), letali cadute da cavallo (“Tres Nuraghes”, una storia vera), incursioni nell’universo dell’istruzione pubblica (“La banda dei topini” avrebbe potuta scriverla un eretico come Giovanni Papini), il disagio mentale (“In caso di cura”).

Una scrittura figlia putativa del proprio suono, anch’essa divisa tra il maestoso e il minimale, o se vogliamo tra il visionario (“le cose non le so, le sento”) e il didascalico. La title-track, tanto per dirne una: di Ettore Majorana viene descritta la fuga, esaltata l’umanità (“se quello che facciamo serve a uccidere la gente, ci sarà il deserto, non ci sarà più niente”), mentre la Legione Straniera (riecco "Sidi Bel Abbés") finisce per trasformarsi nella meta finale del suo dissolvimento (“l’uso militare della mia ragione? È meglio faccia a faccia, è meglio la Legione”). E che dire di “Grande distribuzione”? Racchiude il Giurato che non ti aspetti, giocoso, teatrale, folgorato sulla via di Piero Ciampi, che manovra i propri livelli di sarcasmo per frustare una borghesia piccola e volgare. Una canzone che chiude il cerchio su di un disco non immediato e forse non del tutto accessibile ma che, in modo ineluttabile, finirà per allargare i confini del culto ruotante attorno alla figura di un cantautore diverso da tutti gli altri passanti. E per chiudere il discorso, ce la sbrighiamo con una sola parola: capolavoro.

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