I Santarè tratteggiano un esordio ricco di richiami alla musica leggera italiana
Ascoltando questo esordio si ha subito l’impressione che i Santarè siano la perfetta band da Sanremo giovani, fortemente legata alla musica leggera italiana ma con allo stesso tempo la voglia di fare un passo laterale per avvicinarsi al panorama alternativo - ovvero introducendo elementi di modernità negli arrangiamenti e in parte nei testi, lasciando inalterata la struttura portante, legata al cantautorato e destinata alla crazione di musica, per l'appunto, leggera. Nardinocchi, Erica Mou, The Niro, Celeste Gaia; sono alcuni dei nomi che hanno tentato di far propria questa duplice via.
I Santarè propongono un pop rock dalla forte presa cantautoriale e ricco di ballad dal sapore romantico. Caratteristiche però che non vanno oltre le premesse, ma che anzi si bloccano di fronte al problema di riuscire ad affermare una propria identità che superi il repertorio italiano costruitosi nel tempo. Durante la riproduzione si ha spesso la sensazione di già sentito.
L'appunto più grande che si può fare al lavoro è, quindi, l'assenza di una qualche forma di freschezza compositiva. L’esempio più significativo ce lo dà quella che è forse la traccia portante del disco, “L’amore non è una relazione”; per quanto possa essere melodicamente piacevole, quanti brani praticamente identici a questo sono contenuti nella carriera di Renga?
Non che sia un crimine appogiarsi a un genere musicale ben consolidato, il punto è che in questo lavoro non si riesce a percepire qualcosa che vada un pochino oltre le basi di partenza, o che lo faccia in modo migliore, o che quantomeno lo faccia in un modo che senza aggiungere niente semplicemente fa prendere bene. Qui purtroppo non accade nessuna di queste tre cose.
Il discorso vale perlopiù per i testi, che soffrono un po’ di più rispetto al comparto sonoro. Ce ne sono alcuni che seguono le dinamiche sopra descritte e aggiungono poco o nulla a quanto non sia già stato fatto da decine di altri artisti, tirando dentro concetti già spremuti attraverso un lessico ed una poetica abusati ("Appena di niente", "Semplicemente un fiore"), altri invece (pochi) sono molto più convincenti e intriganti ("Saturno").
Musicalmente, invece, l'album regge maggiormente. Anche qui non è che ci siano miracoli, ma tra un richiamo e l'altro si può trovare qualche buon centro. Si coglie un forte legame con i Bluvertigo e Morgan (“Paralleli di frequenze”, “Eroi”) riprodotti in una versione dall’elettronica più morbida, ma anche coi Negrita in “Venduta”. Per il resto viene lasciato parecchio spazio al pianoforte, vero protagonista del disco.
In conclusione questo “Ad occhi aperti nel buio” è un album che non riesce ad avere mordente. Ha qualche piacevole guizzo, ma troppo spesso si parla di canzoni che si fanno notare più per il rimando a band illustri che per un vero interesse.
Il risultato è effettivamente qualcosa che possa cavalcare agilmente il palco dell’Ariston, ma che non riesce a scrollarsi di dosso i problemi che una definizione del genere porta con sé: la difficoltà nel non riuscire ad aggiungere qualcosa, non tanto di nuovo o diverso - che quello è arduo per chiunque non si chiami Damon Albarn - ma che possa quantomeno rimanere impresso nella mente di chi ascolta per un periodo di tempo superiore alla durata dell'lp.
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La recensione Ad Occhi Aperti Nel Buio di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-11-16 00:00:00
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