Il titolo del disco degli Artefici, “L’Ipocrisia del Babbano”, non può che riportare alla mente i ricordi legati alla serie di Harry Potter. Infatti, è proprio dal libro che gli Artefici prendono spunto, concentrandosi sul concetto di “babbano”, termine che nel mondo di Potter sta a indicare coloro che non possiedono poteri magici; nel mondo senza magia i “babbani“ siamo tutti noi.
Il concetto dell’uomo qualunque, subordinato all’uomo considerato “superiore”, di successo, viene sviluppato in tutto l’album, a partire dal primo brano, dal titolo evocativo “Mainstream Lo-Fi” dove ci si sofferma appunto sulla questione della tendenza dominante, profondamente spersonalizzante (“la gente mi vuole per quello che rappresento”); purtroppo, però, sembra ci siano dei brani poco chiari, dei quali sembra sfuggire il senso, come ne “L’era degli Ologrammi” (“il terzo occhio tormenta come l’insetto insinuato nel verso”) all’interno dei quali sembrano trovarsi inoltre frasi ingiustificatamente scollegate dal testo, come ne “L’Ipocrisia del Babbano” (“siamo clitoridi che beneficiano del piacere prodotto da vibrazioni meccaniche”).
Il punto di forza degli Artefici è senza dubbio l’aspetto musicale. C’è il rock più classico - riassunto nel power trio chitarra, basso e batteria - smorzato dall’utilizzo del synth e dall’inserto di sonorità ruvide e grezze che guardano al grunge, conferendo un respiro internazionale al disco. Carattere distintivo della composizione musicale sono gli intro e gli assolo prevalentemente del basso che partono in sordina, con un ritmo molto lento che viene rotto improvvisamente dalla durezza della batteria, portando il ritmo ad un livello nettamente più elevato (“L’Ipocrisia del Babbano”, “Il Mio Corpo che Dorme”).
“L’Ipocrisia del Babbano” è un disco convincente, che trova il suo punto di forza nel carattere internazionale della musica degli Artefici.
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