A volte i tentativi di migliorare la propria condizione sono orientati verso una direzione sbagliata, allora meglio restare all'inferno
In un bello scritto di Nadia Fusini, contenuto nella postfazione di "Go Down, Moses" di William Faulkner (2002), la scrittrice mette in relazione il peso che il luogo di nascita ha avuto nella scrittura dell'autore di New Albany rispetto ai suoi colleghi americani. Il passaggio è breve e lo riporto per intero:
Gli scrittori moderni del Novecento abitano in città, vivono in grandi metropoli, prolificano in culture urbane, a Vienna, a Parigi, a Londra. In città europee nasce il modernismo, in letteratura e in poesia all'inizio del secolo. E quando raggiunge l'America, negli anni Venti, Eliot, Pound, Fitzgerald, Hemingway scappano per venire in Europa, per esporsi alle stesse scosse sismiche che hanno creato una diversa coscienza, e dunque un'altra immaginazione, un'altra lingua. Faulkner no; Faulkner fa il suo viaggio in Europa, ma poi torna. Torna nel deep South, nel suo mondo.
Se torna dall'Europa nel piccolo infinito del Mississippi, che trasforma nella sua contea di Yoknapatawpha, è per incontrare lì il Minotauro: nei meandri di quella complessa geografia umana che è Yoknapatawpha, lo scrittore che è Faulkner affronta la sua prova.
A differenza di Faulkner Louis Dee non ha sentito il bisogno di dover ricreare un proprio mondo di fantasia, la Yoknapatawpha del rapper è Palermo (l'inferno), e lo è dal giorno zero. Inoltre, per quanto è dato sapere, non c'è stata nessuna Europa per Louis, e quindi nessun ritorno: la consapevolezza di voler affrontare il proprio Minotauro a casa propria è dunque realtà fin dal primo momento.
Se però nei precedenti lavori Palermo appare come il simbolo di un legame indissolubile ("tengo sempre i piedi giù perché sono del sud") e garanzia di una certa credibilità ("abito a Ballarò, sai già di cosa parlerò, nato a San Lorenzo le borgate sono il classico"), in "Sto bene all'inferno" la città assume una dimensione più complessa e la sua presenza nel disco è così imponente che l'intero lavoro avrebbe potuto essere accreditato anche a suo nome. Le storie, le immagini, l'attitudine, il flow, tutto è legato a Palermo, nel bene e nel male. Uno dei risvolti più interessanti dell'album è infatti proprio questa consapevolezza estrema di ciò che è buono e di ciò che è sbagliato. La città offre entrambe le cose con la stessa potenza (discorso tra l'altro estendibile a molte altre realtà italiane), l'importante è saperle riconoscere ed eventualmente saperci convivere ("Vedi che ti chiedo come fai fai, come sai sai, come cazzo ti pare/ Droga ne ho venduta a tutti, fai fai, come sai sai, come cazzo credevi potessi campare/ Per me è ancora tutto normale, d'amore e d'accordo coi figli del male"). Ecco perché sono necessari degli appigli a cui aggrapparsi, dei punti di riferimento a cui guardare quando l'inferno cerca di avere la meglio su di noi. Per Louis Dee prima di tutto c'è la famiglia e suo figlio, a cui dedica la bellissima "Eredità" ("Ho le mani tra le mani di mio figlio e le sue mani sono vita a cui mi appiglio"), poi la musica, protagonista assoluta in "Ancora qui", le amicizie e l'immancabile scorta d'erba.
Nonostante questi maniglioni antipanico la madre di tutte le domande resta (anche quella): perché restare all'inferno?
In molte immagini descritte dal rapper palermitano si percepisce quanto la città sia ormai talmente radicata nella sua vita che far finta di ricominciare in un altro luogo sarebbe come prendersi in giro da soli. Ormai Dee è parte integrante di Palermo, dei suoi quartieri, delle sue strade, è parte della giungla urbana: "I piedi a terra con la testa fra le nuvole, vorrei tornare indietro e non rischiare di deludere/ Le aspettative di chi punta sempre il dito contro, la vita è un carcere, degli anni perdi il conto/ Capelli grigi testimoni di cosa sei stato, una città che ti ha cresciuto e ti ha cambiato". Quando Dee mette a tempo queste frasi la voce è densa, è piena di vissuto, è così reale che non è possibile non percepire quanto la sua città e la vita stessa lo abbiano segnato. La domanda allora potrebbe essere un'altra, come lo stesso rapper ha suggerito in una recente intervista: chi veramente vuole uscire fuori dall'inferno?
A volte i tentativi di migliorare la propria condizione sono orientati verso una direzione sbagliata, a volte occorre fare i conti con ciò che si ha a disposizione e da cui è necessario ricavarne il meglio. Questo il principale messaggio che emerge dal disco, che vuole essere quasi un inno alla resistenza, rimanere invece di scappare via.
Salvo un paio di brani dal sapore riempitivo, "Sto bene all'inferno" è uno dei dischi rap più belli usciti fino ad oggi in questo 2015. Vuoi per le indiscusse abilità al microfono di Louis Dee, vuoi per la poesia delle storie di quartiere, vuoi per il sound mozzafiato creato da Big Joe che si conferma ai primi posti tra i producer italiani (la linea di basso in "Fuga dal paradiso" è di una potenza assassina e il beat di "Scappa" meriterebbe il Grammy domani stesso) e vuoi per altri mille motivi che non elenco perché vale la pena scoprire da sé.
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La recensione Sto bene all'inferno di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-09-03 09:00:00
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