Il Brenta come il Mississippi: il nuovo, bellissimo, album dei Mr Wob & The Canes, che si riallaccia alla tradizione del voodoo blues ed ulula la sua disperazione metropolitana
"È un peccato che Satana debba avere tutte le migliori canzoni", ammoniva dal suo pulpito il teologo metodista John Wesley: era la metà del XIX secolo e si riferiva ai canti e a tutto quel complesso di credenze e rituali africani che arrivavano, insieme agli uomini in catene, nelle piantagioni del Nuovo Mondo. Quei canti e quei rituali, identificabili con il voodoo, erano imperniati sul concetto dell'elemento spirituale come essenza dell'esperienza umana e -quello che a noi interessa- della creazione musicale. Da ciò discendeva la necessità di innalzare il ritmo ad un livello cosmico, sovrumano, sincretico. Diabolico, dicevano i padroni bianchi che, terrorizzati da tutto ciò, risposero con la repressione di quelle manifestazioni e, più tardi, con la conversione forzata degli schiavi al cristianesimo.
Ma quella tradizione millenaria non poteva essere sradicata dal cuore degli africani, col tempo divenuti afro-americani, venendo, prima, perpetuata in forme clandestine e poi, in maniera via via più interiorizzata ed individuale, fondendosi nel blues e nella sua profonda tensione tra i sentimenti di speranza e di rassegnazione, di gioia e di dolore, di amore e di fuga, di anima e di carne.
Di vita e di morte, in definitiva. Tradizione che ha raggiunto un punto di arrivo -e, contemporaneamente, un nuovo punto di partenza- negli anni '30 del XX secolo con la chitarra e la vicenda dannata di Robert Johnson.
Ed è questa l'atmosfera che si respira nel bellissimo "The Ghost of Time", che a quella tradizione si riallaccia, assorbendola, aggiornandola e reinterpretandola in chiave personalissima, filtrando il tutto attraverso un sound tormentato e crudo alla Billy Childish, che di quel continuum storico-socio-musicale considero il miglior interprete bianco. Questo nuovo lavoro dei Mr Wob & The Canes è, infatti, come un flusso persistente dal primo all'ultimo brano, è un rito voodoo metropolitano, un blues disperato e ululato sul cemento delle nostre città, percussivo ed ossessivo, a tratti anche inquietante come oggetti che si muovono al passaggio di un fantasma, a tratti più arioso con le sue influenze New Orleans, country o tendenti al gospel. Tutto molto intenso, aggressivo, cupo, ma dolce. Oserei dire quasi punk, ma non pensate alle creste, alla provocazione e al rumore: questo disco è punk come la disperazione e la speranza, punk come le lacrime e la voglia di rialzarsi, punk come i bluesman malandati e dinoccolati dei primi del '900, punk come erano punk il già citato Robert Johnson (di cui ripropongono "Come Into My Kitchen") e Howlin' Wolf, come lo erano Screamin' Jay Hawkins e Nina Simone, Lightnin' Slim ed anche Johnny Cash.
Punk come dei musicisti di Venezia che suonano un blues primitivo come se il Brenta fosse -o forse lo è per davvero- il Mississippi delle foto in bianco e nero di un secolo fa. E questo, per quel che mi riguarda, è il miglior complimento che si possa fare ad un disco di blues suonato da una band bianca contemporanea.
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La recensione The Ghost Of Time di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-07-22 09:00:00
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