A fine ascolto l'impressione è che la Ishaqband avrebbe potuto diluire agevolmente l’enorme materiale immaginifico a sua disposizione all’interno di un progetto ben più sostanzioso dei soli sette brani (in gran parte strumentali) contenuti in “Remedies”, i quali danno quasi l’impressione di risultare, ad un attento ascolto, sovraccarichi di spunti orchestrali e slanci evocativi. Ma prendetelo come un complimento, eh! Sì, insomma, se tutto quel ben di Dio fosse stato spalmato su almeno una decina di brani nessuno avrebbe avuto da ridire e quella sensazione di viaggio trasognante che ci accompagna durante tutto l’ascolto sarebbe durata più a lungo.
Già, perché Il secondo album della band veneta altro non è che un viaggio sonoro in un altrove inafferrabile dai contorni introspettivo/contemplativi, meglio ancora, un lungo piano sequenza che sorvola paesaggi ectoplasmatici e celebra arcane malinconie, seguendo la lezione di Sigur Rós, Múm, Nils Frahm e Yann Tiersen. Molteplici e cangianti i colori, così come le tensioni umorali: dalle suggestioni celtiche dell’opener “Five years ago” alle magnetiche movenze cerimoniali di “Bunkajah” e “Clouds”, dalle latitudini islandesi di “Reawaken” e “Coward” all’impagabile intimità domestica evocata da “Elijah”, passando dal minimalismo fluttuante à la Teho Teardo di “The ballroom”, tutto si muove all’interno di un folklorico post-rock che prova a riconciliare paure ancestrali e voglia di rinascita dentro lo stesso abbraccio misericordioso di madre natura.
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