Con un bel tuorlo d’uovo a troneggiare in copertina e un titolo che prende candidamente per il culo uno dei capolavori dei Beatles il misterioso Death Of A Red Fish torna sulle scene più strafottente che mai, a dispensare nuovamente quei suoi cari deliri synth-demenziali che giusto due anni fa gli procurarono, anche su queste colonne, feedback oltremodo lusinghieri (“Songs of loose morals”).
In “The white albumen” lo smanettone campano estremizza la gestazione casalinga dei precedenti lavori affidandosi, per la registrazione degli 11 brani in scaletta, a una piccola tastiera midi collegata a un iPod touch, ciononostante riuscendo scaltramente a ricreare un ben assortito ventaglio atmosferico, visibilmente devoto alla più bizzarra e destabilizzante nostalgia: vi basti l’irriverente, quanto abissale, salto di registro dagli autunnali umori parigini à la Yann Tiersen di “Omelette song” alla girandola di rutti e catarri di scuola Squallor che vivacizza amabilmente “Disposable Mike”.
Tutto il resto viaggia sui binari di un coscienzioso cazzeggio orchestrato da chi sa il fatto suo in materia di elettronica giocherellona (e no) a cavallo tra ’70 e ‘80: da quella più cosmic-oriented di Space e J. M. Jarre (“Lonesome dancer”, “Floatin’”) a quella più contemplativa di derivazione krautrock (“The space whistler”, “The wind”), passando attraverso un sacco di riempitivi elettro-vintage a metà strada tra rigurgiti moroderiani e minimali colonne sonore (le movenze soffusamente sexy ’70 di “Strip club” o quelle poliziottesche di “Night rider”).
Il tutto, ovviamente, all’insegna di suoni spudoratamente plastificati e magnificamente demodé che non potranno non commuovere tutti gli ascoltatori vicini ai 50.
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