Dovesse esistere un club di quelli che… “Ci sei o ci fai?”, Calogero Incandela, nickname di Salvo Mineo, vi entrerebbe di diritto. Chissà, un giorno, non troppo lontano, potrebbe rivestirne il ruolo di presidente. Eletto per acclamazione. No, non è una cattiveria. È che siamo alle prese con la categoria “cantautore lo-fi stonato che registra con pochi mezzi a disposizione”. Una categoria vasta, eterogenea, che ha già dato tanto alla scena indie italiana. Pure troppo, a dire il vero. E qui un po’ di cattiveria c’era. Più che altro non si sa come uscirne, più che altro non puoi evitare di ruotare attorno all’eterna questione: ma questo qui c’è o ci fa?
Concentriamoci sull’Incandela e sul suo disco d’esordio, “Tra la movida e la morte”. Siciliano (e si sente), strimpellatore di sei corde acustiche, menestrello irregolare ma al tempo stesso devoto ai numi tutelari della canzone d’autore tricolore (nel testo di “Da quando il cane ti è morto” si cita Fabrizio De Andrè), voce stridente alla Stefano Rosso, irriverente, surreale, politicamente scorretto. Fiero del suo status, il ragazzo firma dieci canzoni in buona parte rette da arpeggi esasperati, arrangiamenti minimali, a tratti raffazzonati, testi ironici e disillusi. Dalle parti del conterraneo Mapuche o del primo Bugo. Senza però raggiungere la loro follia urticante, i loro colpi di genio. Con l’aggravante dei versi in rima: Incandela ne abusa e spesso finisce col risultare scontato e prevedibile, ponendosi ai confini dell’indiesfiga.
Sentenza inappellabile? No: in realtà non tutto è da buttar via, qualcosa di buono riesce a emergere, a partire dall’abilità nell’imbastire storie sbilenche, affollate da personaggi eccentrici e ben connessi alla realtà quotidiana. E poi il soggetto è simpatico e di cose da dire (divertenti e non) ne ha. Calibrare il tiro non appena si presenterà la prossima occasione potrebbe bastare.
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