“Questo è solo un breve paragrafo riguardo a niente, ma suona pieno di speranza e mi piace. Vivrò al di fuori dei miei segreti e dormirò con la porta aperta di notte, e quando tu arriverai e busserai io risponderò: vieni dentro è aperto”.
Esordiscono così i Damien, sfidando anche la vista più acuta, stendendo nel booklet, su fondo nero, minuscole righe grigie e sfuocate. Dicono di voler dare un “vestito sonico” alle loro “piccole emozioni”. Frasi brevi, due colori opposti e dominanti, esperienze semplici e manesche, buchi nell’anima e magliette graziose, esistenzialismi e occhi azzurri, sono l’espressione dei loro turbamenti. Chitarre dolci che scoppiano e impennano, melodie semplici ma a tratti profondamente sofferenti, pochi artifici, batteria onnipresente e furiosa, grida d’ordinanza a rendere ossessivi, fastidiosi e penetranti particolari di per sé disadorni e sereni, sono l’abito sonoro scelto.
Potrebbe non piacermi questa musica, potrei trovarla obsoleta, derivativa, stonaticcia. Ma ho incontrato i Damien nelle parole, nei nervi, nei passaggi strumentali che pescano nella memoria e la sfidano, nei brividi per una tonalità perfettamente virata (dalla foga più che dalla tecnica), in quei particolari che si urtano distrattamente e inconsciamente nell’ascolto. E ho riconosciuto l’urgenza, l’intensità, il bisogno giovane che asseconda l’istinto, la necessità di sfogare la passione, il marasma di emozioni che non sa trovare i codici giusti per mostrarsi.
Non c’è ancora l’esperienza di espressioni delicate che vanno dritte al punto e allora si grida; non si conosce ancora la tattica e allora c’è frustrazione, aggressività, calore troppo intenso. C’è il disagio di non riuscire e c’è il rifugiarsi nella confortante ed esemplare scia di chi (Ian Curtis? Kurt Cobain?) ha trovato nello stesso dissidio il modo più autentico per dargli voce. Ma c’è anche un’energia rara, sconsiderata e sincera, che deve solo scoprire il modo definitivo per convincere e ferire mortalmente i pregiudizi di sensibilità diverse.
Quindi Damien vi lascio credere che diventerete re, perché conosco e pratico la stessa vostra ansia di spaccare le pietre e spero, con piena solidarietà, che si evolva in urgenza di scolpire.
---
La recensione Let us pretend we are kings di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-02-29 00:00:00
COMMENTI