Il secondo, ottimo, lavoro della blues band romana, crudo, essenziale e cattivo
Il boll weevil è uno scarafaggio le cui dimensioni non raggiungono quelle di un unghia umana, ma che, a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, fu capace di infestare tutte le piantagioni di cotone degli Stati Uniti d’America, deturpando la quasi totalità dei raccolti: dopo aver devastato il Messico, nel 1872 raggiunse il Texas, poi la Lousiana, quindi il Mississippi, l’Alabama e la Georgia, lasciandosi dietro una scia di depressione economica e sociale che nel Sud rurale perdurò fino alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, impoverendo, più che i lavoratori agricoli, che poveri erano sempre stati, la classe dominante dei possidenti ed imprenditori terrieri. Quel piccolo essere, all’apparenza indomito e invulnerabile (fu, in effetti, debellato solo nel 1978), assurse così a una sorta di ruolo vendicatore nell’immaginario degli oppressi dal sistema delle piantagioni, in particolar modo della blues people, che gli dedicò varie canzoni celebrative, a partire da “Mississippi Bo’ Weavil” scritta nel 1908, ma incisa solo nel 1929, dal contadino-cantore Charley Patton.
Riproponendo, nella scaletta dell’album, proprio questo brano, i Dead Shrimp si vogliono ricollegare proprio al blues rurale ed alle vicende che questo raccontava, fatte di sventura, umiltà e anelito alla ribellione: gli altri nove pezzi inediti sono crudi, essenziali, disperati e cattivi allo stesso tempo, spaziando stilisticamente in tutti i mood della black music, compresi il canto antifonale tra voodoo e gospel della bellissima “How Big Is Your Soul”, il funky di “Rollin’ Back”, il desert sound ed il blues rock.
Anche l’approccio alla produzione sembra deliberatamente scarno ed immediato, permettendo al feeling, all’ispirazione ed al sudore del terzetto romano di risaltare e splendere: nonostante sia un disco di blues tradizionale, questo secondo lavoro dei Dead Shrimp è intriso e figlio della contemporaneità, talvolta di critica ad essa, è un disco –letteralmente- vivo, che racconta la desolazione e la rabbia moderna con un linguaggio che, però, è eterno.
Dovessi usare una sola parola per descriverlo, direi che "How Big Is Your Soul" è un lavoro profondo, perfettamente inquadrabile in una tradizione e in precisi canoni, ma espressione di una rara sensibilità individuale.
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La recensione How Big Is Your Soul? di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-12-21 09:45:00
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