Cupo, claustrofobico, volutamente depressivo. Il demo autoprodotto degli Into The Hole evoca paesaggi industriali post-atomici, lande desolate dove la presenza umana diviene feticcio in balia delle macchine, dove il ritmo pulsante delle drum-machine percuote ossessivamente ricordandoci che il nostro è il tempo della produzione. Tra ritmiche convulse, riverberi esagerati e sibili che entrano sottopelle, si fa strada la voce umana, ultimo baluardo di carne in un universo sonoro dominato dalle macchine.
Una voce intima e sofferta, che diviene rantolo soffocato per poi esplodere rabbiosa e distonica (“Where am I going”). Una voce di umanoide, che lotta per mantenere inviolata la propria emotività ma che assomiglia sempre più a quella di un cyber-automa di gibsoniana memoria. Dietro il progetto scopriamo con piacere celarsi il deus-ex-machina Alessandro Volpi che, colpito da un ipotetica ‘sindrome Trent Reznor’, oltre a comporre i brani, suona praticamente tutti gli strumenti - pur coaudivato dalla presenza di Gianluca alle chitarre e Saverio che si occupa di synth, programmazioni e basso.
Un demo ricco di citazioni interessanti e nemmeno troppo celate, da un certo electro-dark anni 80 (vedi Gary Numan e/o Bauhaus) sino ai più recenti Nine Inch Nails, soprattutto nell’uso esasperato degli effetti per chitarra e la presenza predominante del basso nella struttura di composizione. Il lavoro non è penalizzato dal fatto di essere autoprodotto, essendo la componente elettronica piuttosto predominante e il genere proposto storicamente non caratterizzato da una grande purezza di suono (nel caso di grandi produzioni questa scelta avviene per mera scelta artistica). Se bastano pochi secondi di ascolto per entrare immediatamente nell’universo sonoro degli Into The Hole, bisogna attendere le ultime due tracce per sentire i brani più convincenti; in particolare “Without pity”, la traccia più interessante, perfetta per riempire un dance-floor in odor di electrodark, così in voga in questi tempi di revival. I restanti pezzi ammiccano all’estetica crepuscolare di certi anni ‘80, in particolare quelli più oscuri e decadenti, senza presenza alcuna di attitudine pop - cosa che renderebbe il tutto un po’ più gradevole.
Pur ammirando quindi la scelta radicale del gruppo e la totale coerenza del progetto, “Do you want to play with me” probabilmente resterà un ‘fatto’ di nicchia, destinato esclusivamente ai cultori del genere - scelta coraggiosa senza dubbio, ma che certamente non spiana la strada ad un gruppo interessante e meritevole di una qualche considerazione.
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La recensione Do you want to play with me (ep) di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-04-08 00:00:00
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