La notte come tema portante di un disco non è certo una novità: l’ultimo che mi ritorna in mente, in ordine di tempo, è quel “Canti notturni” dei C.F.F. recensito dal sottoscritto alcuni giorni fa proprio su queste colonne. Ciononostante, per quanto inopinabilmente vetusta e abusata, è un dato di fatto che questa materia prima, continui a sedurre artisti di ogni tipo, musicisti in primis.
I bolognesi Parsec si accodano alla carovana dei rockers “nottambuli” e proprio alla notte dedicano il loro debutto sulla lunga distanza, sviscerandola attraverso i decibel urticanti di un noise rock declamatorio che tanto deve – forse troppo – ai veterani del genere di casa nostra, Massimo Volume e Il Teatro Degli Orrori in primis. Al centro della scena storie e personaggi borderline di una provincia reietta e annichilente, generatrice di quel persistente senso di oppressione e sconfitta (generazionale?) che permea ogni solco del disco: tra “Volti consumati dal tempo e privi di espressione”, “assuefazione ai fallimenti”, “sterili relazioni”, esistenze “senza tracce d’inizio né sicure prospettive di fine” si consuma una desolazione tridimensionale, dove persino le figure femminili o i genitori stessi si muovono come ombre indistinte ingoiate dall’oscurità.
Se la stagnante ripetizione dello schema narrativo (sempre sviluppato in prima persona) non riserva tensioni particolari – in tal senso “Il testamento di un uomo” incarna liricamente l’episodio più riuscito del disco con la sua cinematografica introduzione Tarkovskijana – la propulsione sonora fa invece la sua porca figura, soprattutto nei frangenti più roventi e cinici in odor di The Death Of Anna Karina (“All’ultimo piano”, “Emile”).
Un allungo risolutivo in termini di emancipazione dai propri idoli musicali non potrà che giovare alla qualità artistica del prossimo progetto.
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