Il primo disco dei Museo Kabikoff ha origini ormai lontane. Preceduto da due demo, già ampiamente illuminanti riguardo le capacità della band e la qualità del loro suono, si pone come primo punto d’arrivo di un percorso che, al momento, non conosce punti deboli e che già nei suoi inizi era apparso stupefacente per originalità e padronanza tecnica, oltre che per il suo essere progetto dotato di basi solide e non estemporanea e sfilacciata prova musicale.
Non stupisce più di tanto, quindi, se ci si trova subito di fronte a qualcosa di realmente inconfondibile: ogni singolo tassello è al suo posto e riporta immediatamente ad un suono tipico della band, ormai inequivocabile marchio di fabbria; le chitarre funamboliche di Nazzareno Turra, che creano strutture-destrutturate senza mai apparire onaniste, i mandolini e lo slide a generare un ibrido di Mediterraneo e country, la sezione ritmica malata di jazz e la voce di Marco Saletti, dal timbro leggero, continuamente in bilico tra falsetti dolcemente ironici e aggressività urlata.
Non si registrano, insomma, particolari cambiamenti di rotta rispetto ai primi due 'lavoretti' del gruppo, se non che la produzione sembra diretta verso un suono più corposo e al contempo sporco. Pare, insomma, che i Nostri operino per sottrazione, puntando più sull’aggressività che sulla raffinatezza: gli arabeschi di “Tarantolata”, ad esempio, risultano quasi sgraziati, mentre “Ekografie” suona come una raffica di mitra, totalmente privata degli orpelli che la decoravano nella prima versione, in entrambe poi, la voce schiaccia decisamente sull’acceleratore. Sostanzialmente immutate, invece, “Petulanza” e “Anarcotraffico”, che, anzi, sembrano trovarsi a proprio agio in questa “nuova” soffitta polverosa, con i loro abiti naif e i loro debiti al maestro Capossela. Ottimi i nuovi arrivi, in particolare “Cinema”, fatta di frustate hard e versi sgraziati e le filastrocche allucinate “Laragosta” e “Soffiasopra”, nonché l’accattivante “Limes”, lenta e psichedelica nelle sue derive post-grunge .
Tirando le somme, ciò che ci aveva fatto innamorare di questo gruppo resta saldamente al suo posto, confermando decisamente le premesse: tecnica sopraffina, idee e attitudine sempre più felici e scricchiolanti, intensità e dedizione totale nei confronti della propria musica, plasmata in modo sempre più libero e lontano dai trend. Certo, in alcuni casi, la raffinatezza degli esordi si fa rimpiangere, e l’assenza di alcune piccolezze nella cura di suono e arrangiamenti rende evidente quanto, in realtà, esse fossero gradevoli. Resta il fatto che pezzi di tale spessore sono cosa rara e che questa opera prima invoglia decisamente a vedere il gruppo in azione, a percepirne il calore e le sfumature, ancora vive e pulsanti sotto la polvere e i watt.
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La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-05-17 00:00:00
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