“Flowers in the cement” di Fabio Brienza, in arte Charcoal è decisamente un disco dark, che sembra provenire dritto dritto dagli anni 80, figlio com’è delle suggestioni dei Cure di “Seventeen seconds”, “Faith” e “Pornography”, dei Virgin Prunes di “If I Die I Die”, degli Ximox di “Reaching out”, e in generale del clima 4AD dell’epoca. Ma con una voce che riprende il timbro profondo e maschio, quasi epico, ma sempre attento a non diventarlo mai, di Glenn Gregory degli Heaven 17, che pure dark non erano. Un disco ben fatto e ben suonato, sempre in bilico tra il prodotto di nostalgia e il revival, sotterraneo e sempre incombente ma mai esplicito in questi ultimi anni, del genere. In alcuni punti fanno capolino influenze più recenti, come le chitarre vagamente metal di “Freedom” che possono rimandare ai Moonspell o ai Type 0 Negative di “October rust”. La curiosità sta nel fatto che un prodotto del genere proviene da Chicago – dove il laziale Brienza si è trasferito -.quindi da una città e da una nazione che con un certo tipo di dark così inglese hanno avuto poco - sempre qualcosa certo, ma poco – da spartire. Il prodotto non sembra indicativo di una sotterranea scena “gotica” locale, visto che il buon Fabio Brienza fa quasi tutto da solo. Un fiore nel cemento, quindi, davvero. E quindi un disco gradevole, anche per l’occhio sempre attento alla cantabilità pop-dark, che interesserà appassionati e nostalgici. Lo si può consigliare anche ai più giovani fans dei Placebo, dei quali si avverte qui e là qualche lontana eco, come viatico per la riscoperta delle fonti cui anche la band anglo-lussemburghese si abbevera. Ma in generale, vista la mancanza di canzoni epocali in un pur generale buon livello, non si intravedono possibilità di una grande circolazione.
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La recensione Flowers in the cement di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-06-24 00:00:00
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