E' fastidioso sentirsi infastiditi dopo l'ascolto di un disco.
Dispiace cominciare così, perchè gli Edwood non meritano di diventare caprio espriatorio di un crimine mai commesso. Certo è che comincio a manifestare una incontrollabile forma di intolleranza verso certe esternazioni di arte da appartenenza.
Resto convinto che l'assenza di talento e originalità talvolta possa agevolmente cedere il passo al gusto, così che anche una buona copia abbia il dono di sfiorare gradevolmente le emozioni senza pretendere di rivoluzionarle. Non è necessario ricercare musica proveniente da strani e nuovi mondi. Si possono fare cose semplici e banali, per il solo gusto di farle. Il problema nasce quando l'esistenza è vincolata alla necessità di partecipare ad una festa dove non si è mai stati invitati, per giunta arrivando quando tutti se ne stanno andando.
Forse la vecchiaia incalzante mi lascia appeso a ideali decaduti, nell'attesa di una musica che sappia stare per conto proprio; qualcosa capace di esistere solo perchè c'è. "Like a movement" è invece un disco sintomatico della dissolvenza di un nostro orgoglio culturale. La conferma di come l'Italia stia coltivando la sindrome da Muppet Show, raccogliendo gli sguardi divertiti e affettuosi dell'Europa, che ci trascina con sè come buffi pupazzi a cui volere bene, ma da mettere puntualmente da parte quando c'e' da fare sul serio. Le poche e miracolose eccezioni lo confermano.
A cosa serve continuare a fare una musica che sottrae spazio a sè stessa, amplificando solo quella degli altri. E' davvero un peccato sprecarsi in questo modo.
Gli Edwood non sono certo la cosa peggiore mai passata nel mio stereo, tutt'altro, hanno doti di composizione, padronanza di un lessico sonoro, sensibilità per le strutture, capacità esecutive ed estrema conoscenza degli schemi creativi dei loro artisti preferiti. Il problema è l'atteggiamento, perchè la devozione non necessariamente comporta la sudditanza. Questo disco sa diventare imbarazzante e verrebbe voglia di lanciarlo con foga dalla finestra.
Apparentemente siamo di fronte ad un incanto di melodie piccole e leggere, ordinate in gradevole successione. Un lavoro fatto di arrangiamenti ben calibrati, sostenuti da alterazioni elettroniche e incisi passionali. Minuscoli intrecci indietronici capaci di sorvolare paesaggi sfocati e lande multiformi. Un'eleganza compositiva che si scioglie in contrappunti romantici, sapientemente adagiati su frizioni esistenziali. Un impeccabile gioco tra dilatazioni chitarristiche e i lievi gorgheggi ritmici. Un'intensità sempre costante grazie ad una cura meticolosa delle atsmofere. Orecchiabilità sinuosa e singhiozzi di alternatività mitteleuropea. Indiepop. Indierock. Spruzzate dark.
Sembrerebbe bello, anzi bellissimo. Non lo è affatto.
Purtroppo gli Edwood suonano un disco che non esiste e sparisce durante l'ascolto, andando continuamente a bussare alle porte dei dischi altrui senza mai ricevere risposta. I brani fuggono da loro stessi, impauriti di trovarsi l'uno vicino all'altro quasi non appartenessero a chi li ha composti. Composizioni figlie dell'atteggiamento più che della voglia di espressione. A rendere sgraziato il tutto, la cronica lontananza fonetica tra l'idioma peninsulare e quello dell'isolotto d'oltremanica. A nulla serve calcare i vari "èscion", "eìss", "uòùol", "ieìea" perchè la ricerca della scivolosità non basta a colmare quella stucchevole finzione enfatica che caratterizza troppo spesso gli inglesofili nostrani.
La musica di questa formazione non riesce mai a tratteggiare i contorni di un ambiente autonomo, restando alla deriva della deriva della deriva. Una cover band con brani originali, che invidia da lontano i Notwist, cercando almeno di mettersi in scia degli Yuppie Flu, i capofila, seppur dignitosi, di questo modo di porsi che non fa bene alla musica di casa nostra.
Questo album è un pasticcio architettato in ogni minimo dettaglio, perfetto per rappresentare una tendenza oggi troppo diffusa nella nostra penisola, apparentemente sempre più contenta di essere elemento superfluo e accidentale pur di comparire nei luoghi altrui. Tutto questo a me non piace.
Resta però un disco che certamente piacerà alla critica competente e che probabilmente regalerà ampie soddisfazioni agli Edwood. Felice per loro e per la Fosbury, ma se questa è l'unica strada per andare in giro a testa alta, io preferisco guardare in basso e scavare una fossa. Qualcuno da metterci lo trovo.
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La recensione Like a movement di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-07-02 00:00:00
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