Calcutta
Mainstream 2015 - Pop

Mainstream
23/11/2015 - 08:00 Scritto da Marco Villa

Le canzoni di “Mainstream” entrano a gamba tesa in quello che stai facendo e ti impongono di fare una e una sola cosa: cantare

Ci sono dischi che ti fanno da accompagnamento in qualsiasi momento della giornata e si adattano alla perfezione a qualsiasi cosa tu stia facendo. Possono essere le pulizie del sabato o il foglio Excel del lunedì: cambia poco, loro sono lì. Sono dischi fatti da canzoni importanti, perché sono davvero poche le cose che possono stare accanto sempre, senza mai essere di troppo. Le canzoni di “Mainstream” di Calcutta sono l’esatto opposto, perché entrano a gamba tesa in quello che stai facendo e ti impongono di fare una e una sola cosa: cantare.

A dirla così sembra strana, perché coinvolgere l’ascoltatore dovrebbe essere una condizione necessaria per un disco che voglia conquistarsi un pubblico e sperare di non evaporare nel giro di poco, ma non è un fatto scontato. Negli ultimi anni, per dire, la musica italiana è stata attraversata da una grossa quantità di lavori di estrema qualità, soprattutto in ambito elettronico. Lavori che si sono fatti notare per cura e ricerca, per una pulizia sonora a tratti quasi maniacale, ma poi basta che arrivi un ragazzo che canta malino e metta insieme dieci tracce prodotte peggio per convincere tutti. Ma proprio tutti.

È il tiro pop, bellezza. È la capacità di scrivere pezzi da tre minuti con linee melodiche che si fanno cantare dopo mezzo ascolto, esattamente quello che serve per entusiasmarsi di fronte alla follia di un ritornello come “suona la fisarmonica / fiamme nel campo rom / tua madre lo diceva / non andare su YouPorn” (“Gaetano”), alla genialità di far rimare Medjugorije e De Gregori (“Limonata”) o alla necessità di gridare “Io ti giuro che torno a casa e mi guardo un film” come se fosse la più grande rivendicazione di libertà mai espressa da un essere umano.

Dopo un album del 2012 con cui il suo nome era iniziato a circolare, fermandosi però poco fuori Roma, Calcutta è riuscito a dare una forma compiuta al suo modo di fare canzoni, prendendo dai concittadini I Cani l’attitudine sfasciona e lo-fi (oltre alla passione per gli intermezzi inutili) e dai Thegiornalisti l’ossessione per i brani da singalong immediato. Sono queste le due anime di un album che è in grado di entusiasmare e fare arrabbiare allo stesso tempo, perché le potenzialità sono sotto gli occhi di tutti, così come la scelta di non aver spinto al massimo (eufemismo) a livello di produzione. Per dirla in modo più dritto, la differenza tra i brani più curati e quelli più lasciati a se stessi non è data da orchestre di decine di elementi, ma dalla presenza o meno della batteria.

Nonostante questo, la sensazione è che Calcutta sia uno di quei pochi dotati di un talento istintivo, di quelli che riescono a tirare fuori tantissimo dal poco che hanno tra le mani: lo dimostrano non solo i tre pezzi già citati, ma anche la canzone di non-amore “Cosa mi manchi a fare” e l’altro mezzo inno “Milano”. Si tratta di un talento non facile da gestire, soprattutto dal punto di vista produttivo, perché potrebbe portare a hit spaccaclassifica, come a un anonimato di successo in microscene e micronicchie. È questa la partita che arriva adesso: trasformare "Mainstream" in qualcosa di veramente mainstream. E poi, certo, spiace che sia inverno, perché sarebbe da ascoltare a palla mentre si è in macchina con i finestrini abbassati. Ovviamente cantando, ma questo ormai l’avete capito.

Vedi la tracklist e ascolta le tracce sul player nella versione completa.