Osservando ultimamente il tamarrissimo double denim che ti sbatte in faccia sul palco Lorenzo Moretti, chitarrista -ma anche (seconda) voce, produttore e autore di tutti i pezzi dei Giuda- scatta immediatamente il collegamento con un altro tamarrissimo, e quasi iconico, double denim della storia del rock’n’roll: quello degli Status Quo.
Introduco con questo dettaglio con la certezza che non è insignificante: il look, per Lorenzo e i Giuda, non è mai stato né secondario né, al contrario, fine a se stesso, ma, allo stesso modo del sound compresso della batteria, delle chitarrone e dei testi, per loro è sempre stato l’essenza di quello che sono e che vogliono esprimere, parte dell’immaginario di cui sono appassionati, ricercatori e interpreti.
E la citazione estetica degli Status Quo non è neppure casuale, sebbene possa passare, proprio in quanto dettaglio, inosservata. Con il terzo, attesissimo album, quello che potremmo definire “Giuda sound” fa un passo in avanti, distaccandosi definitivamente dal (proto)punk degli esordi ed approfondendo gli elementi boogie e tendenzialmente hard che già erano presenti, in nuce, in “Let’s do it again”.
Pezzi come il singolo “Roll The Balls”, “Bad Days Are Back”, “Watch Your Step” e “You Can Do Everything” sfiorano la perfezione se paragonati ad un certo tipo di rock’n’roll, crudo ma ben prodotto, che si affermò, dai pub, ai club, fino a Top Of The Pops, alla metà degli anni ’70 tra la Gran Bretagna e l’Australia: ascoltandoli non possiamo fare a meno di figurarci le brutte facce di Phil Lynott dei Thin Lizzy, di Brian Johnson -si, quello degli Ac/dc- con i suoi Geordie, della Gang di Ted Mulry.
Ma anche “My Lu”, “It Ain’t Easy” e “Joolz” (queste ultime entrambe cantante interamente da Lorenzo e non da Ntendarere), se da un lato è effettivamente difficile immaginarcele all’interno dei loro precedenti lavori, sarebbero di certo schizzate alte in classifica quarant’anni fa, con il loro approccio pop levigato ma incazzoso, con le loro melodie che attingono a piene mani dai Beatles, dagli Small Faces e dalle miriadi di band semisconosciute del cosiddetto bubblegum rock.
E se a livello di sound l’evoluzione balza subito all’orecchio, “Speak Evil” si discosta dai suoi due predecessori anche da un altro punto di vista –e qui, per me, si osserva il reale progresso della band-, quello dei contenuti. “Speak Evil” è un album maturo che, pur non perdendo quella sfrontatezza ormai marchio di fabbrica del quintetto capitolino, non racconta più le scorribande di un “Teenage Rebel”: niente più riferimenti al football e niente più ritornelloni arroganti alla Gary Glitter. Niente più di quell’impostazione “Ramones-iana” del disco composto da dieci brani-dieci hit. “Speak Evil” è, al contrario, un blocco unitario, granitico, compatto e coerente in se stesso, che racconta una storia proletaria letta dagli occhi di cinque giovani uomini. E i pezzi che, concettualmente, ne rappresentano il cuore parlano, infatti, di un “Working Class Man” che sputa il sangue tutto il giorno per il bene della sua famiglia e di una “Mama” che “Got the Blues”, perché fa del suo meglio per tenerla unita, quella famiglia.
Menzione speciale per il brano che chiude il disco, il glam dagli spiccati accenti funky di “Bonehead Waltz”: chi non lo apprezza lo definirebbe sconclusionato, spaventoso quasi, mentre chi sa coglierne lo spirito ci trova dentro, frullata, la follia e il genio dei Black Sabbath e dei T Rex (a me ricorda molto “Buick Mackane” di questi ultimi), ma anche gli oscuri Lemming, che si fecero notare, fugacemente, nei seventies per una serie di singoli tra il glam e la disco a tema horror.
Poco altro da aggiungere su uno dei migliori –non solo a livello nazionale, ma europeo- album di rock’n’roll dell’anno che sta per concludersi: è pop, pulito, di quelli che te la balli alla grande, ma, allo stesso tempo, è cattivo, prepotente, di quelli che ti fanno sentire fiero di avere in Italia una band così.
“Angels with dirty faces”, come cantava Jimmy Pursey. Punto.
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